ALLE TASSE VANNO SETTE MESI DI LAVORO

by Editore | 20 Luglio 2012 8:14

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Quando si aumentano le tasse (in parte anche quando si riduce la spesa pubblica) c’è sempre un trasferimento di attività  dal settore regolare, quello in cui opera chi paga le tasse, all’economia sommersa. Secondo le stime più recenti dell’Istat, il sommerso conta per circa il 17 per cento del pil. Quindi la pressione fiscale su quell’83 per cento di reddito tassato sarebbe addirittura del 55 per cento, il peso delle entrate pubbliche sul reddito regolare al di sopra dl 60 per cento. Sono livelli oggi insostenibili. Dato che le tasse sono concentrate sul lavoro, ci impediscono di utilizzare la risorsa da noi maggiormente inutilizzata e ne fanno lievitare i costi, riducendo la competitività  dei beni prodotti in Italia. I dati Ocse ci dicono che il divario con la Germania nel costo del lavoro per unità  di prodotto è diminuito in tutti i paesi del contagio (i cosiddetti PIGS) tranne che in Italia. E’ un segnale molto brutto per gli investitori. Inoltre, ciò che rende particolarmente pesante la pressione fiscale da noi è il fatto che a tasse così elevate non corrisponde una adeguata qualità  dei servizi offerti ai cittadini. Abbiamo tasse svedesi e servizi italiani, il prelievo non viene percepito come un pagamento a fronte di prestazioni, ma come una tassa tout court, che provoca al cento per cento una riduzione di benessere i cittadini.
La riduzione della pressione fiscale richiede inevitabilmente del tempo in un paese con il nostro debito pubblico. Deve infatti basarsi su tagli di spesa corrente primaria. I risparmi nella spesa per interessi andranno questa volta utilizzati per ridurre il debito. E i tagli alla spesa corrente devono essere mirati, intelligenti. Perché alleggerire la pressione fiscale significa anche migliorare la qualità  della spesa pubblica. Bisogna ridurre quella che serve solo a comprare consenso elettorale. È quella che ha permesso alla Regione Sicilia, decisiva in molte elezioni, di mantenere in vita le baby pensioni per vent’anni in più che nel resto del Paese e di continuare ad assumere in massa dipendenti pubblici (ne ha più della Lombardia) mentre nel resto del Paese c’era il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego. Bisogna anche legare più strettamente i prelievi alle prestazioni effettivamente offerte a chi paga, e solo a chi paga. I lavoratori devono sapere che i contributi che pagano daranno loro diritto a un reddito se perdono il lavoro. I giovani devono sapere che i versamenti previdenziali aumenteranno il livello della loro pensione futura. Solo così non li percepiranno come tasse, ma come assicurazioni o accantonamenti per la vecchiaia. Per questo è così importante riformare gli ammortizzatori sociali istituendo un sistema trasparente che protegga chi paga i contributi. Per questo il Presidente dell’Inps dovrebbe dimettersi. È pagato ben al di sopra dei massimali posti per la dirigenza pubblica e non è stato in grado di mandare a casa di tutti i contribuenti un rendiconto di quale potrà  essere la loro pensione futura in base a quanto versano oggi.
Un governo tecnico deve tagliare la spesa elettorale dato che non ne ha bisogno e deve riuscire a impegnare i governi futuri a continuare sulla strada dei tagli alla spesa sin qui solo inizialmente e timidamente intrapresa. Può impegnarsi a destinare una quota consistente dei tagli alla spesa pubblica alla riduzione della pressione fiscale e chiedere alle forze politiche che compongono la sua maggioranza di fare altrettanto, chiarendo anche come e in quali aree questi tagli verranno perseguiti. Ci vuole un impegno esplicito e misurabile. Servirebbe ad aumentare il controllo democratico e a darci una prospettiva, rassicurando anche gli investitori. Avremo altrimenti solo le consuete promesse da marinaio. E più ci avvicineremo alle elezioni, più serrata sarà  la gara a chi si impegna a ridurre di più la pressione fiscale. Scommetto che questa volta si parlerà  di almeno 5 punti di pil. Tutti sulla carta dei programmi
elettorali, solo su quella.

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