Addio a Sergio Pininfarina maestro italiano del design

by Editore | 4 Luglio 2012 7:59

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TORINO â€” Gianni Agnelli, quando parlava del suo amico Sergio Pininfarina, lo definiva «un galantuomo, una persona perbene ». Linguaggio del Novecento, perché entrambi erano uomini del «Secolo breve» al quale sono sopravvissuti, restandovi largamente dentro ma trasmettendo molto a quelli che sarebbero arrivati dopo di loro. Figlio d’arte e figura di primo piano del made in Italy, personaggio versatile, artigiano e artista, imprenditore prestato alla politica, senatore a vita, Sergio Pininfarina è morto nella notte di ieri nella sua casa torinese dopo una lunga malattia, che lo aveva costretto a stare lontano dalla sua azienda, sommandosi all’ancor più grande sofferenza per la scomparsa tragica del figlio Andrea che gli era da poco succeduto alla guida della società . A settembre avrebbe compiuto 86 anni.
Nella storia dell’industria italiana il posto dell’ingegner Sergio è quello di un torinese a tutto tondo, ma un torinese del mondo, per dire uno di quei personaggi di casa a New York come a Tokyo, legittimato da una fama che aveva in parte ereditato, riuscendo però ad ampliarla con un’azienda-atelier diventata icona mondiale di quella che si può definire l’arte di fare automobili.
Una Ferrari, un treno superveloce, uno yacht, la fiaccola delle Olimpiadi o un paio di sci, partoriti dalla sua fantasia e tratteggiati dalla sua matita, erano destinati a diventare oggetti di culto, sovente opere d’arte esposte nei più famosi musei del mondo. Cresciuto nel milieux torinese, frequentato da maestri carrozzieri come Bertone, Ghia, Fissore, Alemanno, Canta, Moretti, Francis Lombardi, ai quali nel tempo si sarebbe aggiunto Giugiaro, subentra al padre fondatore dell’azienda di famiglia nella Torino del primo centenario dell’Unità  d’Italia.
E’ il 1961 e l’ingegner Sergio è appena trentacinquenne, laurea al Politecnico, sposato con la signora Giorgia Gianolio che due anni dopo gli avrebbe dato il primo figlio, Andrea, e in seguito Giorgia e Paolo. L’azienda è stata creata nel 1930 dal padre Giovanni Battista Farina, detto Pinin, diminuitivo piemontese di Giuseppe o più esattamente un vezzo per indicare uno dei piccoli della famiglia: lui era il decimo di undici figli. A quell’epoca la Lancia esiste da ventiquattro anni, la Bertone da diciotto e la Fiat ha festeggiato già  il suo primo trentennio. Nel giugno di quell’anno una rivista dell’automobile scrive: «Il popolare nomignolo Pinin, onde la Torino automobilistica unicamente si serve per designare Battista Farina, sta per acquistare ufficiale diritto di cittadinanza in Italia». Il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi trasformerà  con un decreto quel nomignolo consentendo la celebre crasi del marchio Pininfarina. Una Cadillac per il maraja di Orchna, una Lancia Aprilia Aerodinamica, una
versione unica della Rolls Royce, un coupé della Cisitalia esposto nella collezione permanente del Moma, la Ferrari 250 GT California escono dalla Pininfarina di Borgo Sanpaolo.
Sergio fa il suo apprendistato, entrando di corsa in questo scenario di famiglia. E’ giovane, conosce il mestiere, ha la passione giusta. Quando nel ’66 muore il cavaliere del lavoro, laurea ad honorem del Politecnico di Torino, Légion d’honneur insignito da De Gaulle, assieme al cognato Renzo Carli, l’ingegnere prende in mano le redini dell’azienda. Ed è una corsa inarrestabile verso un successo che sembra non avere mai fine. E’ quello l’anno della 124 sport spider che in America bisserà  il trionfo del Duetto del Laureato e della Dino Ferrari. La casa di Maranello rimane una costante nella storia della Pininfaria dal cui laboratorio escono versioni memorabili della Rossa. Coniugando passione, estro, intelligenza, tecnica ed eleganza, Sergio scrive sul suo palmares i nomi della Alfa Romeo Eagle, della Rolls Royce Camargue, della Lancia Beta Montecarlo e di altre dream cars.
Carattere cordiale e comunque capace anche di imporsi con durezza e con qualche scatto di ira non sempre controllata, al massimo della sua carriera di maestro designer sembra consacrato solo all’auto, allo stile, alle sue fabbriche che producono i modelli da lui disegnati. Ma l’elezione alla presidenza degli industriali torinesi, lo dirotta verso la politica. L’anno dopo, a sorpresa, viene inserito nelle liste del Pli per il Parlamento europeo. «Mi piace occuparmi delle cose che so fare meglio» dichiara in un’intervista a Repubblica
per sottolineare che la politica non è il suo mestiere. Viene eletto, fa bene e viene riconfermato cinque anni dopo. Nel maggio del 1988 arriva la presidenza di Confindustria. Nell’assemblea un piccolo gruppo di dissidenti insinua che essa è stata possibile per il peso gettato sulla bilancia dalla Fiat. C’è anche chi attribuisce al giornale la Repubblica un’azione di endorsement. «Pininfarina è stato eletto per le sue qualità  e perché è una persona perbene» commenta l’Avvocato. E finisce lì.
La politica lo contagia ma non gli impedisce di disegnare nel 1988 la Ferrari Testarossa. Quando espone in una Mosca ancora capitale dell’Urss una Ferrari si scatena la corsa ai biglietti per andare ad ammirarla al Sokolniki Park. E il liberale Pininfarina è contento. E’ orgoglioso perché continua a pensare che quello delle auto è il suo mondo, la strada che lo porterà  ad essere nominato da Ciampi senatore a vita. La morte drammatica, nel 2009, del figlio Andrea al quale ha affidato il comando è per lui un brutto colpo che si aggiunge a quello dei problemi finanziari che l’azienda fatica a risolvere. Se n’è andato in una notte d’estate ed è un altro grande torinese in meno, di cui però continua a brillare la stella nel firmamento del Made in Italy.

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