Addio a Alexander Cockburn, anticapitalista anticonformista
Alexander Cockburn se n’è andato dopo due anni di strenua, discretissima lotta contro il cancro. La sua dipartita ha lasciato la sinistra occidentale orfana di una delle sue voci più taglienti, spregiudicate e indefettibilmente anticapitaliste. E ha privato il manifesto di un amico (solo pochi mesi fa aveva tenuto a manifestarci pubblicamente la sua solidarietà concreta).
Nato nel 1941 in Irlanda, Alexander faceva parte di una dinastia della sinistra anglosassone. Scozzese, la famiglia Cockburn aveva contato tra i suoi antenati un ammiraglio che aveva combattuto contro Napoleone. Suo padre Claud era stato uno dei più brillanti giornalisti del suo tempo: gli si deve un motto riportato in tutti i manuali inglesi di giornalismo: «Non credere a nulla finché non è stato ufficialmente smentito». Uno dei più attivi comunisti inglesi, Claud fu inviato nella guerra di Spagna: in Omaggio alla Catalogna George Orwell lo avrebbe attaccato come spia dei sovietici: per me era molto istruttivo (e spassoso) ascoltare Alexander tracciare il ritratto dichiaratamente di parte di Orwell.
Del padre Alex ha cercato di seguire le tracce il più fedelmente possibile, non solo iscrivendosi allo stesso college (il Keble) di Oxford, ma nella scelta politica e soprattutto nella professione: anche gli altri due fratelli, Andrew e Patrick, sono giornalisti (Patrick è inviato in Medio oriente dal 1979, prima per il Financial Times, poi per The Independent: famosi in tutto il mondo, i suoi reportages hanno vinto molti premi).
Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1973, Alex aveva subito iniziato una fortunata rubrica («Press Clips») per la Village Voice, che avrebbe firmato fino al 1982 quando entrò a The Nation con la column fissa «Beat the Devil» (il titolo di un romanzo di suo padre). A dimostrare la sua spregiudicatezza, Cockburn sarebbe stato (per brevissimo tempo) columnist anche per il molto capitalista Wall Street Journal. Intanto scriveva per Harper’s, la New York Review of Books, Esquire, mentre teneva rubriche per New York Press e l’inglese New Statesman.
Nel 1994 ha fondato, insieme al suo socio Jeffrey St Clair, il bisettimanale Counterpunch per farla diventare «la newsletter più mestatrice nel torbido di tutta l’America». Di certo è il sito web più graffiante e con meno peli sulla lingua della sinistra Usa. Vi hanno collaborato tra gli altri Robert Fisk, Edward Said, Ralph Nader, Tariq Ali, Noam Choamsky, Nancy Sheper-Hugues e, naturalmente, Andrew e Patrick Cockburn.
L’impegno anti-imperialista e anticapitalista di Alexander è sempre stato totale, senza remore, fino alla sua ultima column per The Nation di appena 11 giorni fa, sullo scandalo Libor e sulle pratiche dei banchieri. Da qui la sua diffidenza per i riformisti e i buonisti di ogni tipo. Perché di suo padre Claud, seguiva le tracce anche nell’ironia tagliente che fino al 2000 gli faceva considerare Gerard Ford il miglior presidente degli Stati Uniti perché era stato in carica solo due anni e non aveva avuto il tempo di fare troppi danni. Dopo il 2000 soppiantò Ford con George Bush jr perché, diceva, «ha fatto più lui per la causa dell’antimperialismo che Che Guevara». Per la stessa ragione non era un grande ammiratore di Barack Obama: “I barbari tifano non per Tito, ma per Nerone, non sanno che farsene di un imperatore ‘buono'” (Alex aveva una conoscenza storica solidissima).
Il suo sostegno alla causa palestinese gli attirava molte accuse di antisemitismo che però lui considerava la dimostrazione pratica dell’uso di quest’accusa per delegittimare ogni critica a Israele e per distogliere l’attenzione dalle politiche israeliane (insieme a St. Clair ha curato un libro che s’intitola Politics of Anti-Semitism, 2003).
Ogni volta che mi trovavo negli Usa, per ascoltare la sua voce da baritono russo con quel suo accento misto oxfordiano-yankee, gli telefonavo anche perché era molto difficile andarlo a trovare: si era trasferito in una fattoria a Petrolia, minuscolo, isolato centro in fondo ai boschi della California settentrionale che mi descriveva come il centro della coltivazione di marijuana. Da parte di un raffinato intellettuale cosmopolita questa scelta esemplifica il suo dandismo all’incontrario, il suo understatement, il suo guidare macchinoni dei tempi andati, il suo andare controcorrente su certezze assodate dei liberal: era contrario al controllo delle armi e negazionista sul riscaldamento globale.
Quel che gli interessava era non la degradazione ambientale in sé, ma la devastazione provocata dallo sviluppo capitalista: ancora oggi si può trarre gran profitto da The Fate of the Forest: Developers, Destroyers and Defenders of the Amazon, scritto nel 1989 insieme a Susan Hecht.
Come ricorda su The Nation John Nichols, Alex scelse il titolo della sua più bella raccolta di saggi L’età dell’oro è in noi (Verso, 1995) da una frase dei Tristi tropici di Lévi-Strauss: «Se gli uomini si sono sempre impegnati in un unico compito – come creare una società adatta a viverci – le forze che animavano i nostri lontani antenati sono presenti anche in noi. Niente è deciso; tutto può ancora essere alterato. Quel che fu fatto ma si rivelò sbagliato può essere rifatto. L’Età dell’Oro, che la cieca superstizione ha situato dietro di (o davanti a) noi, è in noi».
Alex ci ha sempre ricordato che è adesso il tempo di cambiare e che noi siamo coloro che stiamo aspettando.
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