by Sergio Segio | 30 Luglio 2012 15:24
E’ ancora lungo e tormentato il destino dell’Arms Trade Treaty-ATT, il Trattato internazionale chiesto a gran voce da un gruppo di Nobel e dalla società civile mondiale [1]per dotare tutti gli Stati di uno strumento globale, a carattere universale, capace di fornire regole comuni ed elevati standard normativi sul commercio di armi.
La Conferenza Onu[2] che si è aperta a New York i primi di luglio e si è dedicata all’argomento, vagliando diverse bozze, non è riuscita a concludere nulla: il 27 luglio il segretario generale Ban Ki-Moon ha rimandato la questione richiedendo agli Stati membri ulteriori approfondimenti.
La posta in gioco, inutile dirlo, è altissima: secondo il Sipri Yearbook 2012 (la ricerca annuale sulla spesa militare curata dall’autorevole centro di ricerca per la pace di Stoccolma) i paesi del mondo hanno speso 1.740 miliardi di dollari, nel 2011, per rifornirsi di sistemi d’arma. Secondo l’Istituto svedese si tratta della cifra più alta mai spesa dalla caduta del muro di Berlino a oggi.
“Purtroppo è l’elaborazione stessa del Trattato a essere messa in discussione, di fronte alla contrarietà di Stati come la Cina e la Russia”, sottolinea Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo[3]. “D’altra parte le bozze in discussione, in particolare quella più rigorosa sostenuta da 73 paesi tra cui l’Italia, sono state lentamente spogliate dei passaggi più significativi, sulla base degli interessi commerciali sostenuti da alcuni Stati esportatori”.
Ad esempio gli Stati Uniti, che hanno lavorato per una versione “debole” del testo che escludesse dalle regole il commercio di munizioni. “Non si tratta di una cosa da poco”, precisa Vignarca, “Il rifornimento di munizioni può giocare un ruolo chiave nelle sorti di un conflitto. Gli Usa dicono di non poter controllare questo commercio, sia per ragioni ideologiche sia per ragioni strategiche”.
Ancora, è stato discusso di poter consentire agli Stati produttori di ignorare la questione dei diritti umani e di avere una sorta di “libertà di coscienza” riguardo a singoli casi, a prescindere dai criteri generali del Trattato.
E l’Italia? Pur avendo sostenuto la versione di Trattato più rigorosa, alla fine anche il nostro paese ha difeso gli interessi particolari dell’industria delle armi, chiedendo che dal testo fossero escluse le armi leggere non a esclusivo uso militare. “Come se le armi leggere – ha commentato Emilio Emmolo, ricercatore di Archivio Disarmo (www.archiviodisarmo.it) – non fossero utilizzate nei conflitti. Invece è universalmente riconosciuto il loro peso soprattutto nelle guerre africane”.
Le armi leggere italiane rappresentano un giro d’affari pari a oltre 250 milioni di euro l’anno. Sono documentati trasferimenti verso paesi in conflitto e ad alto rischio di violazione dei diritti umani, come la Libia, la Bielorussia e diversi paesi arabi.
La nascita del Trattato si confronta dunque con il business, quello dei 5 maggiori esportatori mondiali, USA, Russia, Germania, Francia e UK, dove americani e sovietici coprono, da soli, il 54% dell’export planetario. E si confronta anche con il destino di intere popolazioni, considerata la particolare “clientela”, non sempre presentabile, dell’export di armamenti: India, Corea del Sud, Pakistan, Cina e Singapore sono stati i principali acquirenti negli ultimi cinque anni.
“Chiediamo al Governo di dettagliare la propria posizione anche di fronte all’opinione pubblica e alla società civile”, dichiara Vignarca. La richiesta delle realtà che si battono per un mondo più sicuro e disarmato è quella che l’Italia si metta in prima linea per rendere il Trattato, nei prossimi passi di discussione internazionale, maggiormente dettagliato e dotato di strumenti reali di controllo”.
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