Vite masticate e risputate in grumi
Un titolo che si attaglia, Dentro. Perché leggendo questo libro di Sandro Bonvissuto (Einaudi, pp. 178, euro 17,50) si possono pensare tante cose, si possono evidenziare limiti, si può congetturare e si può sperare, ma non si può dire che non «suoni» dentro quello che dice. E, in tempi di sovrapproduzione di libri, peraltro sempre meno «oggetti», non è poco. L’urgenza, dunque, quella cosa che dovrebbe essere lo stimolo primo e ultimo di ogni azione, anzi di ogni pensiero precedente e perdurante la scrittura. La necessità , in senso strettamente filosofico, di dire qualcosa. Quella cosa che ti rode dentro lo stomaco finché non riesce a scavarsi la sua via, dolorosa e ulcerata, verso l’esterno.
Non sembri ozioso, idealista e magari «reazionario» riproporre questi semplici ragionamenti. Perché quando a dominare sono standard e quantità , necessariamente l’urgenza diventa discrimine, reagente e tornasole. Bonvissuto viene presentato giustamente – e anche furbamente – come estraneo a tutto questo. Borderline rispetto all’universo letterario, con un percorso di vita tribolato ma colto, che tiene insieme filosofia e strada. In quarta già ce ne sarebbe per attivare i radar antisofisticazione, per sospettare l’operazione di marketing (Einaudi non ne è nuova, vedi alla voce Lilin, ad esempio). E tante voci di sospetto ho raccolto tra i miei spacciatori e annusatori.
Ma, però. Ci si addentra, nel primo racconto lungo. Letteralmente. Parla di sbarre, di muri, di carcere. Lo fa con un’evidenza che è sia esperienza che pensiero, tutto raggrumato insieme. Dà immediate e persistenti sensazioni di soffocamento. Affronta di petto il modus (soprav)vivendi di una mente, prima ancora che di un corpo, costretta a toccare muri senza sguardo. Ed è duro, il muro. La «narrazione» procede per lampi, costretta solo dai due momenti, irrelati e cogenti, dell’ingresso e dell’uscita, entrambi in qualche modo irreali. Metto le virgolette a narrazione, perché Bonvissuto non è, allo stato attuale, un narratore. Piuttosto un masticatore di vita che la risputa in grumi in cui descrizione e sentenza, riflessione e condanna sono sempre invischiati.
Non c’è, qui, «storia», non in senso stretto. C’è la visualizzazione, anzi l’auscultazione (perché in carcere le orecchie servono molto più degli occhi) dell’esistenza. La letteratura pare più un tramite di liberazione dall’assillo dell’urgenza, che un progetto. Anche gli altri due racconti, sebbene alla «aria aperta», riproducono il medesimo processo. Uno segue l’ingresso nella «società dalla scuola» e il conseguente legame assoluto del protagonista con il compagno di banco, against the world; l’altro, l’ingresso nella «società » tout court attraverso il rito di passaggio dell’imparare ad andare in bicicletta (e qui si può rintracciare più di un’assonanza con il bel racconto di Andrés Barba Agosto, Ottobre, uscito poco tempo fa per Mondadori, ottima prova di trattamento della violenza insita nell’esistenza associata).
Più debole forse il primo, vivo il secondo. In entrambi ricorrono il dentro e il fuori, il singolo e gli «altri», e tutto il brutale che gli sta in mezzo. Entrambi lavorano per schegge, accumulano, crescono in qualche modo tumorale attorno all’idea fissa, riproponendo un modus che è prima mentale che letterario.
A parte l’ovvio tentativo dell’editore di presentare il tutto come «romanzo» (perché i racconti non si vendono, e via con la pletora di luogocomunanza), un filo dunque c’è. E si rimane con quella fame che scaturisce quando qualcosa tocca dentro, appunto. Dicevamo di limiti, poco più su. Limiti tecnici, forse. Sulla narrazione in primis, sulla capacità di uscire dalla biografia poi. Sulla difficoltà intrinseca di gestire l’epica e la sentenziosità . Roba che riguarda il futuro, in ogni caso. Il bivio, dopo un esordio del genere, certo c’è. Bonvissuto potrebbe diventare «personaggio», sovraesporre se stesso e reiterare la formula. E magari fare anche qualche soldo.
Oppure, e questa è la nostra convinzione nonché auspicio, potrebbe diventare scrittore e forgiare le sue ossessioni, la sua capacità di «entrare» nella vita, il suo orecchio per le mille manifestazioni della morte, la sua estrema pietà per i vivi, per le loro slogature e anche per i loro infiniti e fallaci slanci; forgiare tutto questo, dicevo, in un grande libro cosmogonico e, sì, «filosofico» scritto in italiano di cui gli esemplari si sono via via rarefatti nell’ultimo scorcio di tempo che ci è stato consegnato.
Quella che abbiamo in mano, a saperla leggere, sembra più di una promessa.
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