Una guida per costruire il carattere (tipografico)
Il 12 giugno 2005, all’università di Stanford, un uomo di mezz’età si alzò davanti a un’aula affollata di studenti per parlare dei tempi in cui frequentava un istituto assai meno prestigioso: il Reed College a Portland, nell’Oregon. «Nel campus» raccontò, «ogni cartellone, ogni etichetta di ogni singolo cassetto erano elegantemente scritti a mano. Poiché mi ero ritirato e non avevo l’obbligo di seguire le normali lezioni, decisi di iscrivermi a un corso di calligrafia. Imparai a distinguere i caratteri con e senza grazia, a variare la quantità di spazio tra diversi gruppi di lettere, e capii cosa rende grande la grande tipografia. Fu uno splendido viaggio tra storia e arte, ricco di sfumature che la scienza non sarebbe in grado di comprendere, e lo trovai affascinante».
All’epoca aveva creduto che quelle nozioni non gli sarebbero servite a nulla nella vita, ma si sbagliava. Di lì a dieci anni, Steve Jobs – era così che si chiamava quel tizio – aveva progettato il primo computer Macintosh, una macchina con una particolarità assolutamente inedita: un’ampia gamma di font. Oltre ai caratteri ormai noti come il Times New Roman e l’Helvetica, Jobs ne aveva introdotti di nuovi, evidentemente curandone molto l’aspetto e i nomi. Li aveva chiamati come le sue città preferite, per esempio il Chicago e il Toronto. Aveva cercato di renderli originali e aggraziati come la calligrafia che aveva avuto occasione di ammirare dieci anni prima, e almeno due – il Venice e il Los Angeles – parevano scritti a mano.
Fu l’inizio di un’autentica rivoluzione nel nostro rapporto quotidiano con le lettere e i caratteri tipografici. Un’innovazione che, nel giro di circa un decennio, avrebbe inserito la parola «font» – fino ad allora un astruso termine tecnico riservato al settore della progettazione grafica e della stampa – nel vocabolario di ogni utente di computer.
Oggi è difficile trovare le font originali di Jobs, e forse è meglio così: sono troppo scalettate e scomode da utilizzare. Allora, tuttavia, la possibilità di modificare i caratteri sembrava una tecnologia arrivata da un altro pianeta. Prima del Macintosh del 1984, i computer offrivano un solo tipo di carattere, e metterlo in corsivo non era impresa da poco. Ora, invece, erano disponibili alfabeti che si sforzavano di ricreare qualcosa cui eravamo abituati nel mondo reale. Il principale era il Chicago, che l’Apple ha poi adottato per i suoi menù e le sue finestre di dialogo, fino ai primi iPod. Ma si poteva anche optare per anacronistici caratteri gotici che richiamavano le miniature degli scribi chauceriani (il London), per nitide lettere svizzere che si ispiravano al modernismo aziendale (il Geneva), o per segni leggiadri e slanciati che non avrebbero sfigurato sui menù dei transatlantici (il New York). C’era persino il San Francisco, una font che sembrava ritagliata dalle pagine dei giornali, indicata per noiose ricerche scolastiche e richieste di riscatto. Ben presto l’IBM e la Microsoft avrebbero provato a seguire l’esempio dell’Apple, mentre si cominciavano a pubblicizzare le stampanti per uso domestico (una novità , per quel periodo) ponendo l’accento non solo sulla velocità , ma anche sulla varietà di font. (…)
Ai giorni nostri non riusciamo a immaginare forma di libertà artistica più semplice e normale della tendina delle font. Ecco l’eco della storia, l’eredità di Johannes Gutenberg ogni volta che battiamo su un tasto. Ecco i nomi più conosciuti: Helvetica, Times New Roman, Palatino e Gill Sans. Ecco quelli tratti da legature in folio e fragilissimi manoscritti: Bembo, Baskerville e Caslon. Ecco le alternative per fare sfoggio di raffinatezza: Bodoni, Didot e Book Antiqua. Ed ecco le tentazioni da evitare se non si vuole coprirsi di ridicolo: Brush Script, Herculanum e Braggadocio. Vent’anni fa non li conoscevamo, ma ora ognuno di noi ha i suoi favoriti. I computer ci hanno trasformati in maghi dei caratteri tipografici, un privilegio che, nell’epoca della macchina da scrivere, non avremmo mai pensato di ottenere.
Tuttavia, quando preferiamo il Calibri al Century, o quando un grafico pubblicitario è più propenso a usare il Centaur che il Franklin Gothic, che cosa condiziona queste decisioni, e quale impressione speriamo di dare? Quando scegliamo un determinato carattere, che cosa vogliamo dire veramente? Chi crea le font, e come funzionano? E perché ce ne servono così tante? (…) Si tratta di misteri oscuri, e questo libro vuole provare a svelarli.
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