Un inganno durato vent’anni

by Editore | 21 Giugno 2012 12:52

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Il cacique Damià£o Paridzané è tornato e dice che stavolta non s’accontenterà  «delle promesse della sola bocca». Ha fatto due giorni di viaggio dal Mato Grosso per raggiungere il vertice «Rio +20», che per gli Xavante significano vent’anni in più d’inganni, violenze, devastazione della terra indigena e per l’Italia altri vent’anni di vergogna. Ora è qui, sotto una grande tenda della «Cupola do Povos», il Vertice dei Popoli, e pretende verità  e giustizia: dal governo brasiliano, dai tribunali, e anche dall’Italia.
Dalla terra indigena Marà£iwatsédé gli Xavante furono espulsi nel 1966, quando la dittatura brasiliana voleva fare dell’Amazzonia «il più grande pascolo del mondo». L’esercito arrivò la notte, caricò uomini, donne e bambini su enormi elicotteri e li deportò su un’altra area indigena a 400 chilometri di distanza. La loro terra passò nelle mani di latifondisti cari alla dittatura e diventò la gigantesca «fazenda Suia Missù», di 750 mila ettari, poi venduta all’italiana Agip petroli, che là  si diede all’allevamento estensivo e alla deforestazione. Una volta espulsi i suoi custodi Xavante, quella che era terra di foresta, di fiumi e di «cerrado», la savana più biodiversa del mondo, cominciò a bruciare per far posto alle coltivazioni estensive di soja per mangime animale. Un crimine contro la natura e l’umanità .
Damià£o Paridzané non si è mai dato per vinto. Finalmente nel 1992 una «Campagna Nord Sud» (lanciata tra gli altri da Alexander Langer) riuscì a fare della presenza italiana in Mato Grosso un caso internazionale, e gli Xavante arrivarono a un passo dal successo. Il 10 giugno 1992, in un grande albergo di Rio de Janeiro, durante il primo vertice Onu sull’ambiente, l’Eni e le autorità  italiane s’impegnarono a restituire agli Xavante quel che era loro. Damià£o, di vent’anni più giovane e vestito nel costume tradizionale, donò al presidente Raffaele Cagliari il bastone bianco della pace. E in Italia l’Eni si fece bella del gran gesto.
«Facemmo l’errore di non scrivere nulla», si rammarica ora Damià£o. La terra infatti non fu mai restituita. Pochi giorni dopo la cerimonia a Rio, nel Mato Grosso l’area Marà£iwatsédé fu occupata illegalmente dai fazenderos, che spingevano avanti piccoli contadini e disperati di ogni genere, con la complicità  dei politici locali (molti di essi direttamente partecipi all’invasione) e anche della dirigenza dell’«Agip do Brasil», che boicottava «le pazzie di Roma». La deforestazione riprese frenetica e non ci fu giorno, per mesi, in cui alte colonne di fumo non si levavano nel cielo dell’Amazzonia. 
Per stabilizzare gli occupanti illegali fu creato dal nulla un villaggio battezzato Posto da Mata («avamposto nella foresta»), con stazioni di benzina e negozi, fermate di autobus e perfino uffici di polizia. Nel 2004 anche gli Xavante cominciarono a rientrare, prima in 500, poi un migliaio. Ma furono circondati e oggi vivono chiusi in una porzione piccolissima di terreno e sottoposti a violenze quotidiane. «Hanno cercato di ucciderci», racconta furente Damià£o, «hanno cercato di comprarci». 
Oggi gli Xavante vivono in condizioni impossibili. Un popolo che vive di caccia, pesca e frutti della foresta è ristretto in un terreno arido, con una sola pompa d’acqua che i fazenderos ripetutamente distruggono. Due settimane fa una commissione sanitaria ha registrato 11 bambini e cinque adulti con gravissime dissenterie per aver bevuto acqua prelevata da fiumi che gli occupanti illegali avvelenano a monte con cadaveri di animali. 
Damià£o è deciso: ora o mai più. Prima di lasciare il villaggio, il vecchio cacique ha riunito tutti i bambini e le bambine e ha messo nel loro pugno un po’ di terra: l’impegno a restare nel luogo degli antenati. I vecchi hanno proclamato solennemente che non vogliono morire senza vedere la terra restituita. Alla fine della cerimonia Damià£o ha lasciato il villaggio deciso a non tornare senza aver ottenuto giustizia. 
La legge è con loro. Già  dal 1992 una speciale commissione di Xavante, antropologi e Funai (la fondazione governativa per le popolazioni indigene) aveva identificato l’area indigena (i vecchi piansero quando trovarono i loro cimiteri devastati e le ossa triturate dagli aratri) e nel 1998 un decreto del Presidente della Repubblica sancì che 165 mila ettari costituivano la terra indigena Marà£iwatsédé. Secondo la Costituzione brasiliana la terra andava prima incamerata dallo Stato e poi data in uso perpetuo agli Xavante. 
Non bastò. Vennero ricorsi e contro ricorsi, lo Stato del Mato Grosso – da sempre monopolio della destra latifondista brasiliana – sfidò la Costituzione approvando una legge che nei fatti vanificava la restituzione delle terre indigene. Intanto l’Eni, persa la terra dichiarata indigena, si affrettò a squagliarsela svendendo anche il resto della fazenda, nella speranza di far dimenticare le sue responsabilità  nella devastazione della foresta e nell’occupazione illegale.
Sotto la tenda dell’Aterro do Flamengo, dove si svolge il «Vertice dei popoli» di Rio +20, Damià£o ora attende una risposta, il corpo dipinto con i tradizionali colori nero e rosso, in capo la corona di piume di pappagallo e in mano il pesante bastone del comando e della giustizia.
La Procuratora della Repubblica Marcia Zollinger scandisce lentamente le parole. Annuncia che lo scorso 18 maggio 2012 il Tribunale Federale con sentenza definitiva ha riconosciuto la terra indigena Marà£iwatsédé e ha dato alla Funai 30 giorni di tempo per elaborare il piano di evacuazione degli invasori e insediare gli Xavante su tutta l’area. 
Damià£o ha visto troppe sentenze inapplicate per fidarsi ancora: «E chi eseguirà  la sentenza? Per mandare via centinaia di invasori armati ci vuole l’esercito!». Ma ora è scritto sulla carta: 30 giorni. «Se tra 30 giorni non comincerà  l’evacuazione ci accamperemo a Brasilia davanti alla Funai e al Ministero della Giustizia e di lì non ci muoveremo più».
Il giorno dopo si tiene una riunione tra gli Xavante, l’Opan (associazione «Operazione Amazzonia Nativa») e la Funai. Il piano di evacuazione teoricamente è pronto, ma è privo di calendario operativo, quindi inefficace. Il rappresentante della Funai la tira per le lunghe: «900 famiglie di piccoli contadini resteranno senza terra, c’è un problema sociale». 
Iara Ferraz, l’antropologa che ha perimetrato la terra indigena, perde la pazienza: «A me risultano 800 persone, non famiglie!». Ma hanno un diritto anche loro, ribatte l’uomo della Funai. «Ma che diritto, sono invasori illegali!» protesta Ivar Busatto dell’Opan, un figlio d’immigrati veneti che parla ancora il dialetto di Treviso. La sua proposta di compromesso: «Cominciamo a far ritirare per primi i latifondisti, per gli altri vedremo».
La cosa va troppo per le lunghe e Damià£o sa perché. L’ha riconosciuto: il rappresentante della Funai è anche lui un invasore. La giustizia è affidata a uno degli autori del crimine. Non solo. Tutti i sindaci della zona sono occupanti illegali e anche tutti i candidati a sindaco di tutti i partiti nelle prossime elezioni comunali. «Come posso fidarmi?» sussurra il capo Xavante. Nessun partito sta con le popolazioni indigene: i custodi di Madre Terra sono i reietti della società  brasiliana. Ignorano il mercato, si accontentano di quel che dà  la natura, sono considerati un ostacolo al «progresso».
Il piano della Funai condizione lo sgombero («progressivo») dell’area alla condizione che agli occupanti sia assegnato un pezzo di terra in cambio. Le nuove terre sono state individuate proprio tutt’intorno all’area indigena Marà£iwatsédé. «Così sappiamo da dove verrà  il fuoco di qui in avanti» sbotta Iara Ferraz. La riunione la chiude Damià£o: «Avete 30 giorni, ricordatevelo, non uno di più». Ma in 30 soli giorni non si sgomberano 160 mila ettari, con tutte le autorità  locali implicate nell’invasione.
«Parlano di indennizzare gli occupanti, ma così l’illegalità  diventa diritto»: Iara Ferraz non sa trattenere la rabbia. A essere indennizzati dovrebbero essere invece gli Xavante e la foresta. Per ripristinare gli ambienti – ammesso che sia possibile – ci vorranno 50 anni ed enormi investimenti. «Devono pagare i fazenderos, gli invasori, le autorità  – aggiunge Damià£o – e neppure l’Eni può tirarsi fuori dalla responsabilità  di aver devastato la foresta e aver consentito l’invasione. Fatelo sapere all’Italia: non vi lasceremo in pace».

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