Un anno nel segno di Joyce
Nella sua analisi marxista del libro più complesso della letteratura mondiale, Spurgeon Thompson confessa: «Mi piacerebbe ricordare un’era in cui sapevamo meno cose su Finnegans Wake. Se possibile, mi piacerebbe recuperare quel senso di straniamento misto a libertà interpretativa che avevamo a contatto col testo». Straniamento e libertà : concetti difficilmente equiparabili in relazione a letture critiche di testi letterari. Lo straniamento riguarda la ricezione, mentre la libertà è semmai un momento posteriore, in cui la riflessione si sgancia da canoni analitici restrittivi e dalla prevedibilità del giudizio.
Con Joyce, maestro dell’open text, è possibile questo e altro. Eppure, col passare degli anni la sua opera è apparsa a tanti lettori sempre meno aperta, per via della mole di incrostazioni esegetiche che via via sono andate oscurando proprio quel senso originario di straniamento e libertà di cui parla Thompson.
Un perfido necrologio
Bloomsday, il giorno che vede lo svolgersi delle vicende di Ulysses, è celebrato in tutto il mondo da miriadi di iniziative, ed è certamente una buona occasione per riflettere su quello che è stato definito «l’anno di Joyce», il 2012, in cui i libri dello scrittore irlandese sono finalmente usciti dalle secche dei diritti d’autore. Eppure, la reputazione letteraria di James Joyce desta ancora qualche dubbio, riguardo al reale impatto che i suoi scritti possano avere avuto sul nostro immaginario. Sono dubbi dovuti a quella stessa complessità testuale che nel tempo ha allontanato tanti lettori comuni dalle sue opere.
Nemmeno il necrologio del New York Times, uscito il 13 gennaio del 1941, risparmiava il cadavere fresco dell’irlandese da aspre critiche. Ci ricordava, infatti, più che impietosamente, come Irving Babbitt, professore di Harvard, avesse «archiviato il suo romanzo più letto, Ulysses, come qualcosa che soltanto una persona ‘in stato avanzato di disfacimento psichico’ poteva aver scritto». Non è chiaro se quel «romanzo più letto» sia da interpretare in senso relativo o assoluto. Sta di fatto che da decenni, oramai, certi libri di Joyce non mancano di dividere il pubblico in due fazioni opposte: i cultori appassionati, e coloro i quali li «archiviano» come illeggibili e inutilmente astrusi.
Tuttavia, nel 2012, quella che Nadia Fusini ha altrove definito la «liberalizzazione» dell’opera joyciana, ha iniziato in tutto il mondo a portare i primi frutti, proprio nel segno della democratizzazione di un messaggio spesso rimasto ingiustamente relegato a una sfera di autonominatisi eletti. Ulysses, ad esempio, in Italia e nel mondo, quest’anno ha fatto molto parlare di sé. Sono uscite e sono previste in Europa diverse nuove traduzioni, e siamo in attesa di riedizioni importanti del testo – tra cui quella a cura di Sam Slote, che si annuncia con un apparato critico di 250.000 parole. Sono in circolazione, ahimè, anche opere pirata, come il famoso I Gatti di Copenaghen, trafugato senza scrupoli dagli archivi della Zurich James Joyce Foundation.
Ritorni e riproposte
In Italia si è assistito a un rinascere di opere di critica, biografiche, e «riscritture» che hanno rivitalizzato il canone joyciano. Riproporre un classico, in traduzione o in nuove analisi, significa sempre riflettere sul concetto di interpretazione come memoria di un ritorno. Ritorno in quanto rivisitazione di uno spazio culturale un tempo familiare. Se «rileggere» un classico permette di ridefinirne le ambizioni, le pretese, e il suo effettivo impatto nella comunità dei lettori, rileggere interamente la produzione di un autore classico comporta un viaggio verso luoghi virtuali che si vorrebbero abbastanza noti, ma che vanno guardati con nuovi occhi.
Di questo spirito critico testimonia la rivisitazione di un testo uscito alcuni anni fa – oggi ripubblicato in nuova veste, aggiornato e con preziose aggiunte – che avvia il lettore, lo studente e lo studioso al tentativo di sfatare il mito della inavvicinabilità di Joyce. Esce in questi giorni, infatti, da Franco Angeli il volume James Joyce, la vita, le lettere di Franca Ruggieri (pp. 176, euro 21), basato sulla famosa Introduzione a Joyce uscita da Laterza nel ’90. L’opera conduce il lettore attraverso l’epistolario, le vicissitudini biografiche, e i tanti «esili» europei dello scrittore dublinese (Trieste, Roma, Zurigo, Parigi), al fine di ricostruire una mappatura della sua produzione. In Joyce, arte e vita non si discostano mai, e alla luce della interconnessione di queste due variabili apparirebbe poco credibile, per quanto di moda, ogni lettura critica che volesse prescindere da consapevolezze di tipo biografico.
Il testo joyciano, in ciò, sfida qualunque scetticismo post moderno e post-decostruzionista, in virtù del rapporto inscindibile tra esperienza e sua ricreazione artistica. In questa luce, il (pre)testo joyciano permette all’autrice anche considerazioni più generali che abbracciano il rapporto, oggi più che mai controverso, tra scrittura in quanto tecnica e mestiere, e arte: «Nell’era della tecnologica avanzata, dominata dalle leggi del mercato, che ha segnato la fine delle utopie e di una certa idea di progresso, le scuole di scrittura creativa – che del mercato sono emanazione, quasi ammortizzatori sociali contro la decadenza della letteratura – insegnano a scrivere, a costruire un racconto, assemblare – con ricerca erudita e astute strategie – gli ingredienti giusti per raccontare una storia cattivante, una trama ad effetto, un bestseller per compiacere un pubblico, di nicchia o di genere. Ma questo non sempre significa essere artisti».
Eredi inattesi
Joyce appartiene, infatti, a quella schiera di «artisti» che, come suggerisce Declan Kiberd, tentano di aggirare le leggi del mercato. Ciò a costo di produrre opere la cui complessità può spaventare il lettore, ma sempre nella consapevolezza, quasi gramsciana, che la complessità fa parte della vita, e come tale va affrontata, analizzata, razionalizzata, e perfino fruita. Non a caso, il libro di Ruggieri si conclude con l’insegnamento di Giorgio Melchiori che percorre la stessa direzione: «Nel 2000, mentre stilava un bilancio positivo della presenza ormai radicata degli studi joyciani presso alcune università italiane, Giorgio Melchiori avvertiva il pericolo che, fuori dei circuiti accademici e scolastici, i lettori di Joyce fossero pochi… Era il timore che Joyce stesse diventando piuttosto patrimonio esclusivo dell’accademia, una sorta di testo sacro da studiare, annotare e chiosare».
Uno spirito affine appare segnare anche la riedizione aggiornata del James Joyce di Stefano Manferlotti, già pubblicato nel 1997 da Rubbettino, e in questi giorni ripresentato con tutta una serie di importanti aggiunte e rivisitazioni (pp. 116, euro 9). Nel capitolo ampiamente rivisto dal titolo «Nemici, sodali ed eredi», il critico, scettico riguardo alla possibile determinazione di eventuali «influssi diretti su questo o quell’autore», ripropone una lettura dell’opera joyciana consapevole della «sua natura di summa della scrittura modernista».
L’indeterminatezza stessa del concetto di influence porta inevitabilmente alla costatazione che, tra gli scrittori moderni in lingua inglese, «pochi si rivolgono esplicitamente all’esempio joyciano col duplice scopo di sprovincializzare il panorama letterario nazionale e di interpretare con nuovi strumenti formali e concettuali (…) ciò che va proponendo la storia contemporanea a livello collettivo e individuale». Tuttavia, questo non distoglie Manferlotti dal discutere con efficacia casi letterari di effettivo apparentamento con l’insegnamento joyciano: dai più evidenti come Samuel Beckett, fino ad altri meno sospettabili quali George Orwell, Flann O’Brien, Malcolm Lowry, Laurence Durrell, Malcolm Bradbury e Salman Rushdie.
Su un versante obliquamente biografico appare di un certo interesse il libro di Erik Holmes Schneider Zois in Nighttown (Comunicarte, pp. 365, euro 21) sulla prostituzione e la sifilide nella città di Joyce e Svevo.
Dopo una prima parte incentrata proprio sul fenomeno della prostituzione a Trieste più o meno intorno agli «anni di Bloom» – con un utile corollario di dati, riflessioni sulla regolamentazione del fenomeno, e illuminanti casi studio di prostitute triestine – si arriva a Joyce tracciando il parallelo tra la sua arcinota frequentazione dei bordelli dublinesi e la più che probabile prosecuzione di tale passione a Trieste.
Il libro propone brillanti riflessioni sullo spettro della sifilide che indubbiamente aleggia su tutta l’opera joyciana, dal primo racconto di Dubliners fino al magistrale quindicesimo capitolo di Ulysses, in cui il bordello di Bella Cohen, nella vera Nighttown di Joyce, diviene a tutti gli effetti l’incubo del nostro universo. Il testo ripropone, tra un’altalena di percorsi artistico-biografici che si incrociano, quella fondamentale equazione arte-vita che sta alla base della poetica di James Joyce.
Atmosfere rarefatte
Ma rileggere Joyce non significa soltanto farlo dal punto di vista della critica o della biografia. L’opera di un autore circola anche, e forse principalmente, nel mondo, grazie alle sue traduzioni. Esce or ora per Marsilio, con testo a fronte, nella collana «Elsinore» diretta da Giovanna Mochi, una ritraduzione del racconto più bello uscito dalla penna di James Joyce, I morti. La traduzione è di Claudia Corti, che ne cura anche puntuali annotazioni e una valida introduzione. In questa viene ripresentato il continuo oscillare della sensibilità joyciana tra musica e immagine, quasi a prefigurare la magistrale resa cinematografica del racconto da parte di John Huston.
Appare poi importante ripensare quel Joyce poeta, troppo spesso trascurato dalla critica. È stato fatto, quest’anno, prima da un’edizione di Musica da camera (Ladolfi, pp. 98, euro 12) a cura di Caterina Ricciardi, e ora grazie a una bella raccolta di poesie dal titolo conturbante – Ascolta Amore (Barbès edizioni, pp. 111, euro 6) – selezionate, tradotte e introdotte dalla giovane Ilaria Natali.
La bella traduzione, rispettando i ritmi e le sonorità dell’originale, ci riporta a quelle atmosfere rarefatte, e riproduce effetti musicali tra i meno prevedibili della poetica joyciana: Winds of May, that dance on the sea / Dancing a ringaround in glee / From furrow to furrow, while overhead / The foam flies up the be garlanded / In silvery arches spanning the air / Saw you my true love anywhere? («Venti di maggio che sul mare danzate, / In un gioioso girotondo volteggiate / Di ansa in ansa, ad innalzare / Come ghirlanda la schiuma del mare / Che d’archi argentei l’aria ha disegnata / Vedete in alcun luogo la mia vera amata?»).
In piedi su un molo
Ritradurre e rileggere testi non significa solo cambiarne la natura trasformandola in qualcosa d’altro, ma è anche un modo per rimodellare la nostra percezione dei mondi possibili venutisi a creare nell’ambito di letture precedenti. Tradurre, come leggere, significa, manipolando la celebre metafora di Stephen Dedalus nell’Ulisse, attendere in piedi su un «molo», un «ponte in disappunto», a guardare lidi lontani, a immaginare incontri possibili con «altri di cui non sappiamo nulla». Tradurre, come leggere, ci permette di mediare tra culture per oltrepassare i limiti narcisistici dell’individualità . Ed è soltanto così che quel «ponte in disappunto», per quanto solo nella fantasia, potrà di tanto in tanto permetterci di raggiungere l’agognata altra sponda.
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