TZVETAN TODOROV, “QUANDO L’ARTE DIVENTA PERFORMANCE IL BELLO È NEL LEGAME CON GLI ALTRI”

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Per questa mia breve ricognizione attorno al concetto di “bellezza”, mi è venuto del tutto naturale scegliere come primo interlocutore Tzvetan Todorov. Non soltanto perché è uno degli intellettuali più originali della scena europea, ma anche perché è autore di un libro,
Les Aventuriers de l’absolu, che l’editore italiano Garzanti ha provvidenzialmente intitolato La bellezza salverà  il mondo, prendendo a prestito l’affermazione contenuta ne L’idiota di Dostoevskij. L’appuntamento era fissato in un bar della deliziosa Place de la Contrescarpe di Parigi, alle spalle del Pantheon. Deliziosa sì, però mi preoccupava l’idea di conversare in mezzo a tanta confusione. Ma il mio ospite, che ha trasformato la gentilezza in una vera e propria postura
esistenziale, ha già  pensato a tutto: alle spalle del bar c’è un cortiletto silenzioso e deserto, solo per noi.
«Come tutti i concetti generali, anche quello di bellezza non si presta a una definizione puramente teorica, perché riposa su una reazione condivisa intuitivamente. Può aiutarci forse un breve inquadramento storico: la vera, grande mutazione avviene nel secolo XVIII, quando poco per volta si afferma un’idea di bellezza autosufficiente, che trova il suo fine in se stessa senza bisogno di ulteriori giustificazioni. Platone parlava di bene assoluto, sant’Agostino di un Dio che non contempla alcun fine al di fuori di sé, perché è lui stesso il fine ultimo. E ora questa rivoluzione finisce per mettere il bello al posto del bene assoluto, addirittura di Dio. L’arte così prende progressivamente il posto della religione e attraverso l’esperienza estetica l’uomo cerca un contatto con la dimensione trascendente. È l’idea romantica, che permea tutto il XIX secolo e lo stesso XX. Ma una volta entrati nel nuovo millennio, le cose non risultano più tanto chiare».
Anche perché la parola bellezza sembra essere stata estromessa proprio dal suo ambito più naturale: quello artistico. Chissà , forse oggi va cercata altrove.
«Questo è il punto. Mentre lungo tutta la modernità  bellezza e arte sono andate a braccetto, nel postmoderno lo scenario cambia radicalmente. Non si parla neppure più di arte: si preferisce utilizzare termini come performance, gesto, azione. Naturalmente non è da escludere che si sia finiti su un binario morto, e che presto o tardi si imboccherà  tutt’altra strada. Magari un bel giorno le opere raccolte oggi a Palazzo Grassi con grandissimo clamore conosceranno un rapidissimo tramonto. Verrà  qualcuno a dirci che il re è nudo».
Jean Clair sostiene che nell’arte contemporanea non contano più né il “vedere”
né il “pensare”, ma il “sentire”.
«Sarebbe già  moltissimo. La sensazione e l’emozione sono pur sempre validi indicatori di bellezza. Il guaio è che spesso e volentieri l’unica emozione si lega allo stupore per certi impressionanti valori di mercato. Ma come lei suggeriva, può anche essere che la bellezza si sia rifugiata in altre attività , prive di riconoscimento. Come ci insegna il pensiero orientale, la possiamo trovare anche nei gesti minimi della quotidianità : curare un giardino, comporre un mazzo di fiori, impacchettare con cura un oggetto, possono produrre emozioni estetiche altrettanto intense. Questo per dire che se l’arte è soggetta ai mutamenti storici, pur tuttavia, sempre e comunque, ciascuno di noi può sollevare gli occhi al cielo ed essere scosso dalla bellezza. Perché è un sentimento intrinseco alla natura umana».
Faceva riferimento ai piccoli gesti. Non crede che compiere bene un’azione abbia un valore, oltre che estetico, anche etico?
«Direi proprio di sì. Quando un falegname costruisce un tavolo e lo fa con amore, prova un’emozione estetica. E insieme, nella sua azione c’è un segno di rispetto per il mondo, che riveste una valenza morale. La scrittrice Iris Murdoch ha riflettuto a riguardo, pervenendo alla conclusione che il bello e il bene si sposano tra loro proprio perché indicano una fuoriuscita dal bozzolo egocentrico, in quanto accordano la priorità  al mondo. Soltanto così si può produrre vera bellezza ».
Nel suo libro prende in esame tre grandi poeti e scrittori – Wilde, Rilke e
Cvetaeva – che perseguono il bello assoluto di stampo romantico. Ma vanno incontro a uno scacco inevitabile, perché viene a mancare il contatto con l’esistenza
quotidiana.
«Sono tutte e tre vicende tragiche, che ci rammentano come esista un limite morale all’atto estetico. Forse ricorderà  quanto diceva Orwell: anche il più bel muro del mondo deve essere abbattuto, se quel muro circonda un campo di concentramento. Che lo si voglia o no, al di là  della bellezza e del bene, esistono altre forze, che non possiamo ignorare. A un certo punto Rilke si invaghisce di Mussolini. E la sua corrispondente, Aurelia Gallarati Scotti, gli risponde che sta delirando. Naturalmente Rilke è un poeta, non un uomo politico, ma quell’improvvido innamoramento dimostra l’accecamento di chi rivolge tutta l’attenzione al gesto estetico. Ed esclusivamente
a quello».
Nel suo saggio è centrale la figura dell’assoluto individuale.
«L’aspirazione all’assoluto fa parte della vicenda umana, da sempre, e per una lunghissima fase storica tale aspirazione è stata collettiva. Dapprima, con la religione, l’assoluto si è collocato in cielo. Poi è disceso sulla terra: chiamandosi via via Stato, nazione, partito, uomo nuovo. Dopo la fine della seconda guerra mondia-le, e con la caduta del muro di Berlino, tutto è cambiato. E ora siamo alla ricerca di un assoluto individuale, che peraltro non va confuso con l’assoluto arbitrio. Perché è vero che questa ricerca non è più imposta dall’esterno. Nasce in una società  pluralistica, in cui esistono norme tra loro concorrenti, e quindi ognuno la persegue come crede. Ma non si può cancellare l’interdipendenza umana. Siamo animali sociali ed è ben per questo che l’idea di bellezza è connessa a quella di morale. Il punto più alto di tale associazione si ha nell’Idiota di Dostoevskij, in cui il principe MyÅ¡kin, una variante moderna del personaggio di Gesù, ci indica una bellezza che rimanda alla compassione. Eppure quella figura tanto perfetta va incontro al fallimento. Perché Dostoevskij ci offre un ideale dagli esiti tragici? Io credo che lo scrittore russo affronti questo paradosso per indicarci come l’aspirazione individuale all’idea di bellezza, non possa non fare i conti con l’egoismo, l’invidia, l’avidità  che ci circondano. Per quanto santa e perfetta, una figura isolata non riesce a far fronte a tutto questo e
incontra la disperazione».
Nel libro, il controcanto agli “avventurieri dell’assoluto” è rappresentato da George Sand.
«George Sand non è una grande romanziera, come il suo amico Flaubert, ma è più saggia di lui. Come uno scultore scolpisce il marmo per estrarne la sua opera, lei scolpisce la propria vita per renderla più bella. Mentre Flaubert, come un martire dell’invenzione artistica se ne sta chiuso nella sua stanza a tornire di continuo le sue frasi, lei coglie la bellezza nell’istante, accetta la finitezza umana e soprattutto riconosce, al contrario dei romantici, degli gnostici, dei manichei, la continuità  che esiste tra l’assoluto e il relativo, il celeste e il terrestre ».
Cosa pensa dell’affermazione di Brodskij secondo cui l’estetica è la madre dell’etica?
«Brodskij sostiene che chi ha letto a fondo Dickens fa più fatica a uccidere un suo simile di chi non ne abbia letto neppure una pagina. Però Stalin era un grande lettore e amava Cechov. Quanto a Mao, conosceva bene i classici della poesia cinese. Lo stesso Brodskij, in qualche modo, lo rammenta. No, questo criterio non mi convince. Penso che il sentimento morale abbia un fondamento più antico, inscritto nella nostra natura biologica; penso che abbia origine nella dipendenza dall’altro. Svariati studi antropologici hanno dimostrato come il prolungato periodo di protezione di cui necessita il cucciolo umano favorisca la cooperazione dei genitori nel proteggerlo, e quindi la sopravvivenza della specie nel processo evolutivo».
Ricapitolando: la bellezza è una dimensione centrale dell’esistenza, ma non può trasformarsi in estetismo dell’assoluto. Tantomeno può essere vissuta
in modo solitario.
«L’assoluto individuale, se diventa solipsistico, è sterile. E lo dimostra il fatto che il primo a voler condividere con gli altri l’oggetto della sua creazione è proprio l’artista. Del resto, la forma più comune di bellezza è legata alle relazioni umane. E allora, se non crediamo nell’immortalità  del corpo e dell’anima, l’unica trascendenza che ci resta è la traccia che lasciamo nella memoria degli altri. Tanto vale che sia la più bella possibile».


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