Topolino allo stadio l’ingenuità  perduta sulla via del marketing

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Furono le prime Topolimpiadi della storia. Era il più giovane di tutti in quella Los Angeles 1932, Mickey Mouse, appena 4 anni, un’età  alla quale neppure le tragiche ginnaste bambine avrebbero potuto partecipare. Eppure le vinse lui, quasi sconosciuto, senza muovere una zampa. Nei Giochi della Los Angeles 1932, intossicati dai miasmi della Grande Depressione che ne aveva fatto temere la cancellazione, quando Mickey Mouse si presentò sulle deserte gradinate dell’immenso Los Angeles Coliseum da 105 mila spettatori, non si vede un bambino, un adulto, un atleta avvicinarlo per la foto d’obbligo. Sta, nella sola immagine rimasta di quella partecipazione a sorpresa, pericolosamente troppo alto sulla transenna che non gli arriva alle braghine, fissato nel suo eterno sorriso di peluche a fingere di guardare sei militi ignoti che corrono un’eliminatoria dei 110 a ostacoli. Di George Saling, il ragazzo americano che avrebbe vinto l’oro nell’onorevole tempo di 14″ e 57 centesimi, si ricordano gli albi dei Giochi. Ma le orecche di Mickey Mouse, 80 anni esatti dopo quella sua prima apparizione in carne, stoffa, peluche e imbottitura, sono diventate il logo più riconoscibile al mondo, più della croce cristiana, della mezzaluna islamica e persino della “M” di McDonald’s, dicono le ricerche. Il medagliere si dimentica. Le Topolimpiadi restano.
Fu una trovata di quel genio del marketing che si chiamava Walter Elias Disney, “Zio Walt” per le future generazioni. Appena quattro anni dopo il primo cortometraggio animato del 1928, “Steamboat Willy”, Mino del Vaporetto, Disney intuì che la Olimpiade estiva snobbata da nazioni senza soldi (appena 37 arrivarono) e naturalmente senza televisione, sarebbe stata comunque il primo palcoscenico planetario per la sua fragile creaturina agli esordi. Ma “Zio Walt”, senza spendere un cent, e senza essere pagato, aggirò la ipocrisia del “dilettantismo” che aveva escluso il grande Paavo Nurmi per i rimborsi spese incassati nel suo tour americano. Anticipò di decenni la slavina di sponsorizzazioni e di soldi che avrebbero spazzato via ogni finzione di fiaccole e vergini olimpiche, e fece quello che oggi è la regola: il “product placement”, il trucco di piazzare in eventi, film, trasmissioni, il proprio prodotto, come le sigarette che gli attori italiani del passato ostentavano, o come la mela dei portatili sempre ben piazzate nei film da Steve Jobs.
Erano tempi assai più ingenui, se non proprio innocenti. Accanto agli appena 16 sport ammessi, ai due dimostrativi, come il football americano e il lacrosse di origini native indiane, gli organizzatori offrivano medaglie d’oro per competizioni artistiche. Un americano vinse l’oro per un acquarello, «Il Rodeo», che chiuse in un cassetto e fu scoperto dai figli quando morì mezzo secolo dopo. Lontanissimi erano gli esami sui cromosomi del sesso e soltanto un’autopsia condotta nel 1980 confermò che la medaglia d’oro per i 100 metri (e argento nel 1936 a Berlino) era andata a Stanislawa Walasiewicz, visibilmente più Stanislaw che Stanislawa.
Proprio per evitare dubbi sul genere della sua creatura, fra tanti sospetti che invece circondavano le atlete e che indussero Avery Brundage, dittatore dei cinque cerchi, a chiedere da allora in poi esami del sesso, pochi giorni prima dell’Olimpiade Disney aveva prodotto e diffuso nei cinema un delizioso filmetto di sette minuti intitolato “Barnyard Olympics”, le Olimpiadi nell’aia, ancora visibile su YouTube. Topolino, naturalmente, vince la medaglia più ambita, la corsa campestre, sconfiggendo Peter il Cattivo, predecessore di Gambadilegno, e ricevendo alla fine l’abbraccio trionfale e adorante della sua bella, Minnie. Due generazioni prima della privatizzazione dei Giochi, affermata nella stessa Los Angeles 1984 interamente pagata senza soldi pubblici e della definitiva mercificazione delle “Coca Colympics” in lattina di Atlanta 1996, “Zio Walt” aveva capito che lo sport sta ai soldi, come il formaggio sta ai topi.


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