TELERIMPIANTI SE L’UOMO CHE INVENTà’ LA RAI DISTRUGGE I PROGRAMMI DI OGGI

by Editore | 9 Giugno 2012 13:18

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Di rado capita di leggere un titolo più efficacemente riassuntivo di quello con cui si presenta al lettore l’intervista di Ettore Bernabei,
L’Italia del “miracolo” e del futuro
(Cantagalli, pagg. 240, euro 16, 50). Rispondendo alle domande d’un suo amico economista, Pippo Corigliano, l’ex direttore generale della Rai, ora novantunenne, traccia un profilo del nostro paese dall’Unità  ad oggi, dedicando numerose pagine al ruolo svolto dalla Democrazia cristiana, la cui azione, nel corso della cosiddetta prima Repubblica, è stata una condizione determinante per l’unificazione degli italiani.
Al centro dell’ambizioso racconto figura il “miracolo”, parola che, nella copertina, è tra virgolette. Pur essendo assai timorato di Dio, o forse proprio per questo, l’intervistato respinge il termine. Esso è viziato a
suo parere da un’intenzione denigratoria: sminuire quei progressi dell’Italia quasi fossero il frutto d’una benevolenza soprannaturale e non il risultato delle azioni umane. Ecco ciò che conferisce un tono polemico all’intero volume, accoppiando all’insidia della nostalgia, presente in ogni pagina, la dimensione del complotto.
Bernabei non si chiede neppure da dove provenga il sostantivo ingannevole. Non ha dubbi. Se la prende senz’altro con il «sistema capitalista- liberista», di marca anglosassone e protestante, sorretto dalla filosofia del mercato e intento a presentarsi, tramite i suoi strumenti d’“intelligence”, come «l’unico in grado di assicurare la felicità  in terra». Sono stati i “circoli decisionali” della finanza del Globo, annidati negli Stati Uniti ma sorretti in Europa dal consenso britannico a generare questo non casuale equivoco ai danni dell’autonomia e del prestigio di un
paese governato da cattolici con determinanti venature progressiste. E subito dopo si dà  a commemorare l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, rievocando – accanto a De Gasperi ma non sotto di lui, semmai “sopra” – il circolo dei “professorini” della Dc, con a capo tre figure da lui predilette: Dossetti, La Pira e Fanfani. Ai quali nella sua visione
si affiancano altri personaggi, da Vanoni a Moro. Sono loro i fautori di quel solidarismo sociale che ha consentito la promozione del nostro Paese tra i più prosperi dell’Occidente. E via ad elencare i fattori del successo. Rifiuto, sia del “liberismo sfrenato” in chiave
wasp
che del
collettivismo. Anticomunismo sì, ma diverso da quello “atlantico ufficiale”. Nessuna connivenza con movimenti come il Sessantotto, e meno che mai con il terrorismo. Assunzione di un’economia mista tra pubblico e privato, capace di sorreggere le classi più deboli dietro i suggerimenti del solidarismo sociale e della fede cristiana, sancita nell’enciclica
Rerum novarum.
Bernabei confuta con energia ogni antagonista di queste tesi. L’intervistatore per primo rileva che «Ettore esprimeva » le sue idee «con mimica, con umorismo e anche con urla». Adoperando, insomma, quello stile privo di cautele che s’addice a un intellettuale ormai in età  molto tarda, ma combattivo e incline alle recriminazioni. È ciò contribuisce a rendere il volume gradevole anche a chi non sempre si trova d’accordo.
Si addensano nelle pagine i sospetti di connivenza di questo o di quello con la detestata “mitologia del mercato”.
Pochi uomini e partiti se ne salvano. Non il Pci, vittima, a tratti, di quell’“inciucio” fra Usa e Urss che lo storico patron della Rai definisce “Vodka-cola”. Peggio ancora i socialisti, per giunta anticlericali. Non parliamo dei partiti minori di centro che De Gasperi associò al potere, moderandone l’indole conservatrice. Completano il quadro certe animose caricature riservate a singoli personaggi: la premier inglese fra il ’79 e il ’90 diventa “la piccola signora Thatcher”, Ronald Reagan è “un attore minore”. (Ma già , nella parte più storica del volume, Lenin è stato definito “un bolscevico di quarta schiera”, Francisco Franco “un oscuro generale che aveva fatto carriera solo nelle colonie africane”, Hitler un “semianalfabeta” che “non credeva a niente e coltivava prospettive pagane di eugenetica razzista”. Non ne esce molto meglio il suo sodale Benito Mussolini, “sultano romagnolo”, minato da “fantasie
erotiche giovanilistiche”. Peccati d’epoca, questi ultimi. Però qui da noi, si direbbe, sempre attuali).
Quanto durò quell’età  dell’oro che il libro descrive? Il suo crollo ebbe inizio negli anni Ottanta: fu allora che gli italiani si piegarono a imperativi del tipo: «Consumate anche a costo di indebitarvi». La bestia nera di Bernabei aveva vinto la scommessa. L’economia
mista s’afflosciò sotto la voga delle “privatizzazioni”. Gli organi d’informazione s’accodarono al nuovo trend. In particolare la tivù, rinunziando ad essere un veicolo di “amalgama sociale”, accettò di diventare – così la definiva Popper – una “cattiva maestra”. Ossessionata dalla pubblicità  e docile alle richieste del gusto medio, finì per diffondere nell’etere un goffo
intruglio di “gossip, violenza e sesso”. E qui c’è da intendersi. Espressa da uno con il passato di Bernabei, la diagnosi desta sospetti di parzialità  e – va ripetuto – di nostalgia. Ma come negarle qualche ragione? L’ultima frase dell’intervista è sospesa tra pathos e speranza. La requisitoria si evolve in preghiera. Per superare la crisi, occorre “abbandonare le ubriacature nichiliste
del secolo scorso”, e “tornare a vivere secondo le regole del decalogo di Mosè e nello spirito delle Beatitudini predicate da Gesù nel discorso della montagna”.
Si è tentati di esclamare:
«Così sia!».

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