by Editore | 11 Giugno 2012 8:20
TESCHWEEN (al fronte fra i due Sudan) – Il fuoristrada Toyota del Sudan People Liberation Army frena in una nuvola di terra rossa e si ferma nello spiazzo fra il tank T-72 e le due batterie di lanciarazzi puntate verso nord. I mortai da 102 millimetri sono più indietro, fra le acacie, le mitragliatrici sono sparse ovunque, nascoste appena da qualche straccio. Le postazioni sono tutte qui: buche rotonde, larghe meno di due metri, per ripararsi dalle granate. Scarpe abbandonate, qualche brandina coperta di polvere, casse di munizioni, acqua arroventata dal sole, benzina, fagioli, lenticchie, e per il comandante il lusso di una tendina da campeggio. È il fronte di Teschween: a meno di un chilometro, oltre i cespugli spinosi della terra di nessuno, ci sono le forze di Khartum.
I soldati che scendono dal pianale del Land Cruiser sono almeno unaquindicina,compresoilragazzino in ciabatte infradito che si aggrappa con aria smarrita al suo kalashnikov. Ha 18 anni, garantisce il generale Abraham Jongroor Deng: «Tutti noi siamo pronti a difendere il nostro paese e quello che ci appartiene». Compreso il petrolio che sta sotto i nostri piedi, quellodelvicinoimpiantoGreater Nile Petroleum, all’interno del Sud Sudan, fermo da mesi, e quello dei pozzi di Heglig, appena pochi chilometri più a nord, in mano alle truppe di Omar al Bashir. Sulla mimetica inamidata l’ufficiale esibisce la testa di un rinoceronte, simbolo della brigata Rhino. È lo stesso che campeggia nella bandiera gialla al di là dello stagno, l’ultima prima della terra di nessuno. Qui la pista sterrata finisce in un fossato, appena scavato dalle forze sudanesi per fermare eventuali sortite del Spla verso nord. Ma gli uomini della brigata Rhino sembrano tranquilli: «Possiamo riprenderci Heglig quando vogliamo». “Dattero del deserto”, questo significa in arabo il nome del giacimento conteso. I sud-sudanesi lo avevano occupato dopo aver rintuzzato un attacco del nord, e hanno persino deciso di ribattezzarlo Panthou, usando cioè la stessa parola, ma in dialetto Dinka. Poi però la comunità internazionale ha fatto pressioni, chiedendo una ritirata immediata. I giornali africani raccontano di una telefonata durissima fra il segretario dell’Onu,BanKi-moon,e il presidente sud-sudanese, Salva Kiir Mayardit. Alla fine il governo di Juba ha preferito richiamare i soldati da Heglig e lasciare il giacimento. Così almeno raccontano la battaglia gli uomini dell’Spla: ovviamente la versione dell’altra parte è del tutto diversa. Kamal Marouf, capo delle forze armate di Khartum, racconta di aver costretto alla fuga i sud-sudanesi, che avrebbero lasciato sul campo 1200 morti. Se il Spla ha addirittura prodotto un Dvd dove compaiono le postazioni del nord abbandonate e i cadaveri degli “arabi” abbandonati al sole, il Nord invece ha invitato il corrispondente di un’agenzia stampa, che racconta di aver visto «alcuni corpi» di sud-sudanesi colpiti dall’aviazione del nord. Per ora nessuno è in grado di chiarire come sia andata in realtà .
Sulle ragioni invece non ci sono dubbi: è la ricchezza del sottosuolo che spinge alle armi. Persino sull’uniforme del generale James Gatluak, al comando dello stato di Unity, è ricamato un pozzo di
estrazione: è la mostrina della divisione battezzata senza ironia “Petrol”.Gatluaknonhaincertezze: «A nord di Heglig, nella zona di Karsana e Keliak, ci sono ancora i cippi di delimitazione della regione, messi dagli inglesi prima che il Sudan ottenesse l’indipendenza ». Come dire: il giacimento deve essere considerato patrimonio del sud, quale che sia l’indicazione geografica concordata ai tempi dell’accordo di pace del 2005. Quell’intesa aveva spianato la strada alla divisione del paese, sancita poi dai sudanesi del sud con un voto quasi unanime al referendum del gennaio 2011. Ma i confini non erano stati discussi fino in fondo, se all’inizio il prezioso “dattero del deserto” sembrava rimasto al regime di Khartum e ora invece compaiono nuove mappe che lo attribuiscono
al Sud.
Non è una correzione da poco, perché i pozzi di Heglig pescano nel giacimento più grande dell’intero Sudan. Questo petrolio è prezioso soprattutto per la Cina, alleato fraterno del regime di Khartum ma in buoni rapporti anche con Juba. Ed è proprio Pechino che gli analisti indicano come possibile mediatore e forse persino come regista del conflitto. Lo scontro nasce dai diritti di transito del petrolio estratto aSudsull’oleodottodelNord,considerati troppo pesanti dal governo di Juba. Ma per ora l’unica conduttura disponibile è quella controllata dalregimediBashir:l’alternativa, che punta verso Est e arriva al porto di Mombasa, per ora è ancora in fase di progetto. Ed è proprio il ruolo cinese nella costruzione del nuovo oleodotto che Salva Kiir era andato a discutere a Pechino quando Khartum ha lanciato i
bombardamenti aerei oltre confine. Almeno, queste sono le motivazioni ufficiali. C’è chi sostiene, però, che il presidente del Sud Sudan volesse accertarsi di godere dell’amicizia cinese. In altre parole, si può pensare che Bashir non avrebbe lanciato i bombardieri Mig e Antonov, annullando la prevista trattativa sui diritti di transito del greggio, se non dopo il via libera dell’alleato più potente.
Ma quale che siano le reali motivazioni geopolitiche, anche una guerra divampata solo a metà , come questa, rischia di diventare presto una catastrofe umanitaria. «I rifugiati sono già oltre trentamila », dice Davide Berruti, responsabile di Intersos, l’Ong italiana impegnata ad assistere le persone in fuga verso Sud. La crisi è aggravata dalle prospettive economiche: da gennaio il Sud Sudan ha smesso di estrarre il petrolio, che valeva il 98 per cento degli introiti di Stato. Nelle scorse settimane dagli uffici della Banca mondiale è filtrato un rapporto che definisce il governo di Juba «analfabeta finanziario» e lancia l’allarme: se la produzione nonriprende,ilSudSudanandrà al fallimentoentropochimesi.Situazione complicata anche a Khartum, dove il ministro delle Finanze Ali Mahmud al-Rasul ha ricordato che il mancato accordo con il Sud è
costato già 2,4 miliardi di dollari.
I colloqui di pace richiesti dall’Onu, sotto l’egida dell’Unione africana, sono interrotti: forse più che la diplomazia è la stagione delle piogge a fermare i combattenti. Ma a Bentiu, capoluogo dello stato di Unity, ci si fanno poche illusioni. «La guerra può ripartire da un momento all’altro», sottolinea il vicegovernatore Michael Chiangjiek. Vicino al ponte che collega Bentiu con Rubkona, strada essenziale per i rifornimenti e l’aeroporto, le tracce nere del bombardamento sono ancora evidenti. Gli ordigni dei Mig hanno mancato l’obiettivo principale, uccidendo un bambino fra le baracchette del mercato. Poco più in là , al comando dell’Spla, i militari ricordano con fierezza che la popolazione ha accettato il richiamo patriottico, sacrificando un decimo della busta paga per finanziare lo sforzo bellico. E compare l’orgoglio nazionalista del paese appena nato. Ricorda sorridente un sergente della brigata Rhino: «Sudan vuol dire terra dei neri, quindi che c’entrano gli arabi?». Dopo tutto, dicono i politici di Juba, la guerra civile con il Nord dura da decenni. Insomma: pensiamo a finire il nuovo oleodotto, la pace può attendere.
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