Spagna Un avvenire oscuro per i minatori

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Esattamente 50 anni fa, il 21 luglio 1962, il dittatore Francisco Franco confidava a suo cugino nonché segretario militare, generale Francisco Franco Salgado-Araujo, che se la Spagna fosse riuscita ad avere accesso a quella che allora era la Comunità  economica europea, la Cee, sarebbe stato un brutto colpo per le miniere spagnole di carbone.

Come in quel giorno del 1962, le miniere spagnole di carbon fossile e di antracite sono oggi il teatro di un conflitto feroce, costellato di scontri violenti tra i minatori e i poliziotti e di giornate lavorative perse nella regione delle Asturie e di Leà³n. Quella che si combatte qui è l’ultima battaglia per la sopravvivenza di un settore economico che esiste dal 1801 e che, più che essere semplice artigianato, costituisce un settore  industriale su  vasta scala.

L’Unione europea  due anni fa ha deciso di vietare ogni forma di aiuto pubblico alle miniere di carbone a partire dalla fine del 2014, ma di recente ha accettato di prolungare fino al 31 dicembre 2018 lo sfruttamento dei giacimenti che necessitano dell’aiuto dello stato, in pratica la quasi totalità  dei giacimenti di carbone in Spagna.

Questo settore sapeva dunque di essere votato a morte certa, ma contava ancora su una sopravvivenza di sei anni, e poteva sperare in ulteriori proroghe. In definitiva, infatti, il carbone spagnolo vive da oltre 90 anni sotto la minaccia permanente di una liquidazione totale procrastinata di continuo.

Per ottemperare alle richieste di bilancio imposte da Bruxelles, il governo di Rajoy ha però previsto un taglio di 190 milioni di euro di aiuti diretti alle miniere di carbone, pari a una drastica riduzione del 63 per cento dei sussidi. Senza questi aiuti, la maggior parte delle compagnie minerarie rischia di fallire, secondo i proprietari e i sindacati appoggiati dai comuni delle città  minerarie le cui entrate e i cui posti di lavoro dipendono molto ancora oggi  dal carbone.

Stando a quanto si afferma nel settore minerario, se questa decisione di budget non sarà  rivista, l’industria mineraria è condannata a crollare immediatamente, in quanto la Spagna contava di avere sei anni prima di procedere alla chiusura delle miniere meno competitive richiesta dall’Ue.

Il Partito popolare spagnolo si trova con le spalle al muro. Soggetto alla minaccia permanente del premio di rischio sul debito sovrano e a una stretta sorveglianza dei mercati e dell’Ue, se desse segno di debolezza nei confronti del movimento dei minatori intaccherebbe l’autorità  e la credibilità  del governo, e non farebbe altro che incoraggiare numerosi altri settori e altre professioni altrettanto colpite dalle misure d’austerity a manifestare apertamente la propria insoddisfazione.

Il contesto economico non è favorevole ai minatori. Il loro lavoro è stato sempre duro e pericoloso, e ciò nonostante i loro salari, le loro condizioni di lavoro e soprattutto i vantaggi in materia di pensioni non hanno più niente a che vedere con quelli di un tempo. Sarà  pertanto difficile per questi lavoratori presentarsi come vittime e attirarsi le simpatie dei loro concittadini al di fuori del loro entourage.

In difesa del carbone

Il problema delle miniere spagnole di carbone è di ordine strutturale: senza l’aiuto dello stato, sono per lo più in deficit. Per ragioni di ordine geologico, inoltre, il carbone spagnolo non è mai stato competitivo e dal XIX secolo il settore minerario è emblematico del protezionismo spagnolo.

I minatori, i loro responsabili e i leader sindacali difendono da allora la continuità  delle attività  in miniera. Oltre ad appellarsi a motivazioni di ordine territoriale e sociale, invocano criteri energetici ed economici. Garantiscono che la Spagna e l’Europa, sprovviste di altre forme di energia a eccezione di quelle rinnovabili, non devono rinunciare a questa risorsa fossile. Tanto più che se si chiudessero le miniere e un giorno si decidesse di riaprirle, rimetterle in esercizio costerebbe cifre proibitive.

Numerosi economisti rispondono che è assurdo che paesi come la Spagna sostengano attività  nelle quali non potranno mai essere competitivi in termini di produzione, di qualità  e di costi. Già  ora la Spagna acquista ingenti quantità  di carbone all’estero. Il nostro paese importa tra i 16 e i 20 milioni di tonnellate l’anno, mentre la produzione nazionale arriva a malapena a 8,5 milioni di tonnellate.

Anche le Asturie, che per oltre un secolo e mezzo sono state la regione più redditizia della Spagna, ne importano sempre più sin dal 1967, tanto che oggi le importazioni coprono oltre il 70 per cento del fabbisogno regionale di carbone. Questo stesso fenomeno si osserva in Europa, dopo decenni interi di smantellamento dell’industria mineraria: l’Ue produce ancora 130 milioni di tonnellate di carbone, ma ne importa altri 160 milioni circa.

Molti economisti reputano che la sopravvivenza dell’industria mineraria a colpi di sussidi sia una vera aberrazione: quegli stessi aiuti sarebbero impiegati meglio per finanziare nuove tecnologie per sfruttare fonti energetiche non inquinanti e le possibilità  delle esportazioni. Invece di fare questo, sia i capi azienda e i lavoratori del settore, sia i responsabili politici locali di ogni partito uniti in questa battaglia difendono il carbone e propugnano il mantenimento di una “riserva strategica” della produzione in nome della “sovranità  energetica nazionale”.

 

Traduzione di Anna Bissanti


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