Slow food nei Territori

by Editore | 5 Giugno 2012 7:09

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NABLUS – Questa sera ci saranno l’artista Michelangelo Pistoletto e alcuni degli chef tra i più noti in Italia e nel mondo, guidati da Gualtiero Marchesi, all’Osteria della Villetta di Palazzolo, alla cena a sostegno del progetto Beit al Karama (Casa della Dignità ) e della prima scuola internazionale di cucina palestinese targata Slow Food. Un’iniziativa portata avanti da un comitato di donne della casbah di Nablus. Non signore della buona società  locale ma giovani e madri espressione dell’anima più popolare della città . A sostenerle altre due donne, italiane, Cristiana Bottigella e l’artista Beatrice Catanzaro, «residente» di fatto a Nablus.
L’anima di Beit al Karama è Fatima Khaddoumi (nella foto). Ha le molto chiare su cosa debba diventare il primo convivium Slow Food palestinese. «Siamo impegnate su più fronti – spiega Fatima -, ma è il cibo la nostra priorità . Crediamo che il cibo possa dare dignità  alle donne di Nablus e nel resto della Palestina. Cibo che deve essere prodotto in ogni fase nel rispetto dei suoi contenuti nutrizionali, dell’origine, della tradizione. Riconoscendo dignità  al cibo si riconosce dignità  alla donna». La responsabile aggiunge che Beit al Karama dovrà  essere anche un luogo d’incontro per le donne, oltre che un punto di ritrovo dove gustare prelibatezze palestinesi Slow Food. «Daremo l’opportunità  ad associazioni e cooperative di donne di poter presentare attraverso Beit al Karama, il loro lavoro, le loro produzioni, non solo alimentari», conclude Khaddoumi.
Quello delle cooperative, soprattutto in campo agricolo, è un fenomeno che sempre più diffuso in Cisgiordania, con particolare attenzione alla produzione biologica. Promossa dall’Agricultural Development Association (un tempo legata al Partito comunista, più nota come Parc), si è svolta il mese scorso in uno dei giardini pubblici di Nablus una sorta di fiera senza precedenti per una dozzina di cooperative palestinesi che producono fragole, pomodori e fiori biologici. «Siamo di fronte ad una tendenza signifcativa, è un settore in forte espansione – dice Rosella Bonarrigo, dell’ong Overseas che realizza progetti di sviluppo integrato e sostiene l’azione di gruppi di base impegnati nello sviluppo di comunità  -, che conferma il crescente interesse dei palestinesi nei confronti dell’agricoltura naturale e verso forme di produzione che consentono il recupero di terre, specie di quelle più vicine alle colonie israeliane, spesso abbandonate perché di fatto inaccessibili». Con fondi della cooperazione italiana, della regione Emilia Romagna, Overseas in partnership con l’associazione Acs, il Parc, la facoltà  di agraria dell’Università  di Hebron e l’Università  di Bologna, ha iniziato quest’anno un progetto per la difesa e la valorizzazione della biodiversità  nell’agricoltura biologica palestinese. «Si tratta di un intervento che coniuga i temi della sicurezza alimentare e della lotta alla povertà  in ambito rurale con i principi dell’agricoltura biologica, anche attraverso l’aumento della disponibilità  di sementi locali», dice Bonarrigo. Temi che trovano consensi crescenti anche nella popolazione urbana palestinese. Specialmente tra gli studenti, certi che la liberazione dall’occupazione israeliana passi anche attraverso la valorizzazione della storia e della cultura, in ogni suo aspetto, del popolo palestinese.

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