Sandro Viola Da Israele all’Urss quel giornalista proustiano inviato nel mondo

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È scomparso ieri all’età  di 81 anni, a Roma, il giornalista Sandro Viola. È stato una delle grandi firme de “L’Espresso” e di “Repubblica”, come corrispondente dall’estero e come inviato di guerra.
Tanto aggraziato nel tratto e nei comportamenti, Sandro sfidava le convenienze nel mestiere. Quel giorno, al Cairo, mi resi quasi subito conto di quanto fosse giustificata la sua smorfia, espressa con un leggero arricciare delle labbra.
Lì cominciò la nostra amicizia. Accettai il suo sarcasmo come un segnale da non ignorare. Era un avvertimento. Una lezione. Non amava le frasi fatte. Gli incipit enfatici in italiano che aveva sotto gli occhi, sulla telescrivente egiziana gli facevano orrore. Riteneva l’accondiscendenza inelegante come una cravatta stonata. E quindi faceva capire con chiarezza, anche in un’atmosfera tesa, in una situazione d’emergenza, quel che pensava. La contraddizione era la sua specialità . Aborriva l’idea di assoggettarsi al pensiero dominante. Non si intruppava. Il suo orgoglio era venato anche di dirittura morale. Ma era istintivo, irrefrenabile. Era un grande cronista aristocratico. E, per lui, un vero aristocratico doveva essere un conservatore, ma un conservatore eccentrico che ha anzitutto amici progressisti. I soli frequentabili, anche perché con loro si può esercitare l’arte della contraddizione.
Adesso mi viene in mente anche il Bangladesh, dove agli albori dei Settanta, ormai amici, percorrevamo insieme il paese in preda alla guerra civile.
Eravamo stretti in un’automobile sgangherata, immersi in un caldo da bagno turco, e lui indossava una camicia
bianca stirata e pantaloni con la piega. E prendeva gli appunti su un taccuino da studentessa, con una penna stilografica, a inchiostro. Lo prendevo in giro, ma con moderazione, perché poi lui aveva le sigarette che io avevo dimenticato, e l’acqua e i viveri che non mi ero preoccupato di portare con me.
Non era facile da trattare, neppure per chi, rientrando nella privilegiata cerchia delle persone con cui accettava intensi rapporti umani (e la selezione era severa), veniva largamente compensato da un rapporto pieno di attenzioni. Affettuoso. Era insomma un amico difficile e prezioso. A volte scomodo. Leale. Se non gli andava quel che avevi scritto o fatto, o quel che indossavi, te lo diceva senza perifrasi. Un amico raro, dunque, che non mentiva, che ti poteva ferire ma al quale eri riconoscente per la franchezza, virtù quasi introvabile in un ambiente in cui il complimento è spesso un veleno. E dove puoi morire imbecille senza saperlo.
Amava il mestiere ma non lo dava troppo da vedere. Amava i viaggi. Poi li raccontava con un’eleganza asciutta che gli invidiavo. Appena poteva inseriva
nell’articolo una provocazione, che poteva sembrare una punta di snobismo. E lo era. Se a Londra, in un negozio di camice, in Jermyn Street, si imbatteva in una comitiva di rumorosi coreani in bermuda, lo sottolineava con ironia, per far capire che quello che considerava il suo mondo, in giacca e cravatta, non era più lo stesso. Era stato dissacrato.
Poi però gli capitava di sfiancarmi, costringendomi a percorrere senza sosta, in una sola notte, senza neppure cercare un bicchier d’acqua, la strada allora sgangherata e intasata da colonne militari, un migliaio
di chilometri, tra Bengasi e Il Cairo, dove era scoppiata la guerra del ’73. Lo snob di Jermyn Street si era trasformato in un infaticabile corrispondente di guerra (qualifica che detestava ). In Libano, nell’82, mi svegliò all’alba con le sue risate. Aprendo la porta della casa in cui avevamo passato la notte si era trovato davanti un carro armato israeliano che gli impediva di uscire.
Il rischio, con lui, è adesso di scrivere un luogo comune. Nei viaggi, anche agitati, portava con sé qualche buon libro. Di preferenza un classico. I sonetti di Shakespeare l’hanno accompagnato per anni. Uno degli autori preferiti era Evelyn Waugh, per la raffinatezza e il sarcasmo. Di Arbasino amava ogni parola, ed era affascinato dall’erudizione di Ceronetti, suo amico nelle passeggiate a Cetona. Naturalmente era un proustiano. Lo infastidiva tutto ciò che dava un senso di pesantezza. Accoglieva con ironia le mie prese di posizione. Le riteneva troppo passionali. Eccessive. Pesanti. Mi consigliava un po’ di distacco dagli avvenimenti. E tuttavia il suo impegno era intenso quando analizzava le situazioni in Medio Oriente, in Cina, nell’Unione Sovietica. Il conflitto israelo-palestinese, che ha seguito per decenni, lo lacerava. Egli giudicherebbe eccessiva questa espressione (« Lacerare ? Esageri !»), ma le critiche che gli piovevano addosso non lo lasciavano indifferente. E l’implosione sovietica, della quale fu un cronista attento e assiduo (« Ma che aggettivi
usi ?») gli provocava qualche collera. Perché sentiva il giornale riluttante ad accettare le sue tesi. Uno dei peccati capitali dei giornalisti é quello di assecondare, comunque, le idee del direttore e dell’editore. Oltre a quelle dei lettori. E i propri pregiudizi. Lui si impegnava a fare il contrario.
Gli deve essere capitato di castigare se stesso non assecondando i propri pregiudizi («Io pregiudizi ? Ma cosa dici ?»). Per lui sarà  stato come imporsi il cilicio. (« Il cilicio, che orribile idea !»). Ricordo a un vertice del G8, a Tokyo, la sua tenacia nell’approvare la condotta di Craxi non gradita al giornale. Erano momenti in cui il cronista aristocratico dichiarava la sua indipendenza e sfoderava il suo orgoglio. Un comportamento arrendevole verso «i padroni» (« Padroni ? Ma chi sono ?») non se lo sarebbe perdonato, come non si sarebbe perdonato un capo del suo abbigliamento troppo vistoso. Un paio di scarpe troppo gialle o una camicia, peggio ancora, altrettanto gialla.
A un certo punto ci disputammo la Cina. Lui che predicava il distacco non sopportava che si invadessero i «suoi paesi». Ricordo una partita di bigliardo (a Cetona, dove poi ha vissuto per anni) molto burrascosa, polemica, proprio perché avevo invaso il suo campo, andando a Shanghai. Le boccette schizzavano sul tappeto verde come razzi. Sandro lascia un grande vuoto. Lascia in eredità  agli amici una quiete che sarà  insopportabile…


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