Rinascimento tempestoso

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«Tanto nomini nullum par elogium» è l’epitaffio che verso la fine del Settecento fu apposto sul monumento eretto in Santa Croce a ricordo di Niccolò Machiavelli. Che questi fosse stato grande come intellettuale, ma non troppo fortunato o scaltro nella realtà  della sua carriera e della sua vita, è fatto noto; ce lo ricorda però con dovizia di particolari, e soprattutto alla luce di una vivace ricostruzione della Firenze del suo tempo, un nuovo libro di Niccolò Capponi: Il Principe inesistente. La vita e i tempi di Machiavelli (Il Saggiatore 2012, pp. 334, euro 19,50). 
Parabole parallele
Nato nel 1469, Machiavelli entrò quasi trentenne, nel 1498, al servizio del governo fiorentino: alle sue spalle v’erano il governo mediceo e l’esperienza drammatica del Savonarola, di fronte la giovane repubblica oligarchica che lo studioso cercava di corroborare con esempi tratti dalla storia antica, alla ricerca di una cifra obiettiva che ne palesasse le regole occulte e immutabili e trasformasse la politica in scienza esatta; un po’ come Leon Battista Alberti aveva fatto per l’architettura. Nel 1512, con il ritorno dei Medici a Firenze e dopo quattordici anni di servizio burocratico e diplomatico, si ritrovò imprigionato e torturato come sospetto nella congiura contro il cardinale Giuliano de’ Medici; rilasciato ma fuori dai giochi, si ritirò in esilio all’Albergaccio di Sant’Andrea in Percussina, da dove mai smise di attendere il reintegro nella vita fiorentina. 
Ci riuscì solo dopo alcuni anni, quando rientrò almeno in parte nelle grazie dei nuovi detentori del potere, per i quali scrisse e a cui dedicò i suoi trattati. Peraltro quello che lo avrebbe reso più famoso, Il Principe, dedicato dapprima a Giuliano de’ Medici e, dopo la morte di questi nel 1516, a Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero, sarebbe uscito solo postumo, nel 1532. Morì nel 1527, dopo aver assistito alla nuova cacciata da Firenze di coloro che aveva faticato tanto a convincere di accettarlo al proprio servizio. 
È solo una suggestione, ma la parabola di Niccolò Machiavelli potrebbe essere utilizzata per leggere l’intera compagine culturale dei suoi: gli intellettuali umanisti che avevano confidato nelle infinite possibilità  date loro dallo studio degli Antichi, nell’esser «moderni» contro la media tempestas dei secoli che li avevano preceduti, si ritrovarono in breve in un mondo dilaniato dalle guerre. Ai primi del Cinquecento, la crisi di un’Europa sconvolta dai conflitti si unì infatti all’esplosione di un problema religioso latente da tempo. Riformare la Chiesa in modo da ricondurla alla purezza dell’età  apostolica era un vecchio sogno dei cristiani. L’adagio reformare deformata era molto popolare nel medioevo almeno fin dall’XI secolo: e molte furono le riforme tentate, sia dalla gerarchia sia dai fedeli, nel corso dei secoli XI-XV. Ma la situazione di mondanità  della Chiesa nel Quattrocento, alla quale pure si deve una larga parte del mecenatismo intellettuale del tempo, era divenuta insostenibile. 
Istanze libertarie
I movimenti popolari e anche dottrinali del Quattrocento (da John Wycliff in Inghilterra a Jan Hus in Boemia) erano stati determinati dal disagio dello spettacolo d’una Chiesa corrotta da parte di intellettuali e fedeli che l’avrebbero invece voluta vedere povera, lontana dall’esercizio del potere mondano e della ricchezza, aderente allo spirito del Vangelo. Ma fu la Riforma promossa dal teologo agostiniano sassone Martin Luther a rompere per sempre l’unità  religioso-culturale europea. Com’è noto, la causa immediata della rivolta fu la stanchezza per la riscossione delle «decime», le tasse ecclesiastiche, ma la protesta contro la corrotta Chiesa di Roma era promossa nel nome della libertà  di coscienza, del «sacerdozio universale» (l’annullamento della separazione tra chierici e laici), del libero esame delle Scritture contro l’autorità  gerarchica ecclesiale, del valore solo simbolico dell’eucarestia. Ovvio che l’insieme di queste istanze dovesse attrarre le anime libere dell’Europa del tempo: primo fra tutti Erasmo da Rotterdam, il più vivido ingegno del tempo, che dette l’impressione di avvicinarsi alle tesi luterane, ma se ne ritrasse subito. 
Di fatto, le istanze libertarie della Riforma stavano già  trovando spazio tra molti principi tedeschi, ben lieti di incamerare i beni della Chiesa, mentre i movimenti popolari che erano esplosi, spinti proprio dallo spirito rivoluzionario che sembrava permeare la proposta luterana, venivano sanguinosamente repressi con il consenso degli stessi riformatori. La Riforma si sviluppò insomma appoggiandosi agli stati e ai poteri costituiti. Anzi, poiché le comunità  protestanti andarono moltiplicandosi, con pregiudizio per la loro forza e autorevolezza, i luterani tedeschi corsero ai ripari elaborando nel 1580 una «Formula di Concordia» sottoscritta da tutte le loro Chiese, strette attorno ai rispettivi principi territoriali e vescovi. Nella penisola scandinava, le Chiese luterane erano statali, guidate dai rispettivi re.
Nonostante questi esiti, nei paesi cattolici la Riforma poteva sembrava a molti un rifugio da un’atmosfera religiosa costringente e irrespirabile. Ad alcuni di questi casi di dissenso e in generale al clima culturale dell’Italia cinquecentesca è dedicato il libro di Gigliola Fragnito, Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma (Il Mulino 2012, pp.454, euro 32). La Chiesa cattolica rispose alla sfida iniziale della Riforma convocando un concilio voluto da papa Paolo III. Esso si articolò in tre sessioni: dal 1545 al 1547, dal 1551 al 1552 e dal 1562 al 1563. Si fronteggiavano due tendenze: quella che intendeva rispondere alla Riforma rendendo più rigorosi i costumi della Chiesa cattolica e al tempo stesso dando alle Chiese riformate segni di apertura; e quella che proponeva invece un rafforzamento della disciplina ecclesiastica e un rilancio della predicazione popolare al fine di contrastare l’apostolato protestante. Si potrebbe definire la prima una tendenza «cattolico-riformista», la seconda «controriformistica». 
Il risultato fu una convergenza delle tendenze cattolico-riformate e di quelle controriformistiche. Fu comunque definitivamente sconfitta la teoria conciliaristica, emersa nella prima metà  del Quattrocento, sul governo della Chiesa cattolica: esso fu da allora in poi tenuto saldamente dal papa e dalla Curia romana. Però il clero fu soggetto ad attente verifiche morali e culturali: e nacquero, per prepararlo, i seminari. La liturgia postconciliaristica fu incentrata sull’esaltazione della presenza reale del corpo e del sangue del cristo nell’Eucarestia, sulla devozione per Maria Vergine e per i santi, per il riconoscimento del magistero della Chiesa. Il controllo sui fedeli fu rafforzato con la predicazione, la confessione, la catechesi, ma anche con gli strumenti inquisitoriali e in particolare con l’istituzione del Sant’Uffizio. 
Libri all’indice
L’espressione Sanctum Officium era stata usata fin dai primi tempi dell’Inquisizione sia per alludere al carattere dei doveri dei tribunali inquisitoriali, sia per indicare l’istituzione inquisitoriale nel suo complesso. Essa acquistò tuttavia significato più preciso, e notorietà  più ampia, allorché con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 papa Paolo III istituì – alla vigilia del concilio di Trento – la Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, detta comunque da allora «del Sant’Uffizio», appunto con il fine specifico di combattere il protestantesimo e, soprattutto, le prospettive di un suo affermarsi in quei paesi che, dopo la Riforma, erano rimasti fedeli alla Chiesa romana. Tuttavia gli stessi pontefici prestarono sempre attenzione affinché la congregazione non concentrasse troppo potere nelle proprie mani a scapito della Santa Sede. 
I poteri e le competenze dell’Inquisizione Romana furono ampliati dai pontefici Paolo IV e Pio V, che avevano coperto la funzione di «cardinali inquisitori»; infine Sisto V le conferì nel 1588 la forma che a lungo restò definitiva elevandola al rango di prima fra le congregazioni pontificie; l’affiancava, in modo formalmente autonomo ma in realtà  strettamente raccordato con essa, quella dell’Indice dei Libri Proibiti, istituita nel 1571 per esaminare, controllare e censurare la stampa. I temi oggetto dell’esame inquisitoriale della Congregazione furono anzitutto quelli connessi più strettamente alle posizioni luterane e calviniste: la predestinazione, la salvezza solo per fede (e senza quindi l’ausilio delle opere), la negazione del libero arbitrio, la contestazione della validità  dei sacramenti, il rifiuto del primato pontificio, il sacerdozio universale. 
Il caso di Modena
La documentazione sull’attività  del Sant’Uffizio nelle regioni d’Italia che, al contrario di Venezia e delle aree in cui era in vigore l’Inquisizione spagnola, rientravano nella sua sfera di competenza, è discontinua. Gli studi condotti – soprattutto da Romano Canosa e da Adriano Prosperi – mettono comunque in evidenza alcune linee di tendenza che si possono considerare generali: nel corso del Cinquecento l’attenzione degli inquisitori si rivolge soprattutto alla persecuzione dell’eresia, e in modo particolare al contenimento della diffusione della riforma. 
Questo è specialmente evidente in alcune città , come Modena, dove l’Accademia aveva ospitato le idee della riforma e alcuni predicatori «tradizionalisti» erano stati sbeffeggiati e costretti alla fuga. Nel giro di circa un decennio, fra gli inizi degli anni Quaranta e i Cinquanta, l’intervento deciso della Santa Sede e gli appelli alle autorità  civili spensero il dibattito all’interno della città . Ma anche nel periodo successivo, così come altrove in Italia, la guardia contro il diffondersi del luteranesimo fu vigile e permise di ottenere risultati definitivi. Fu così che l’attenzione del Sant’Uffizio prese a rivolgersi altrove. 
Gli ebrei d’Italia non subirono mai il trattamento riservato loro in Spagna e non furono costretti alla conversione; ma certo il controllo sulle loro comunità  si intensificò e irrigidì: in particolar modo si prestava attenzione ai casi in cui conversioni spontanee – generalmente ottenute per mezzo della catechesi condotta dai gesuiti – di ebrei non fossero osteggiate da parenti e conoscenti; si indagava sulle frequenti denunce di profanazioni compiute contro oggetti e figure sacre dei cristiani; si esercitava un controllo sul contenuto dei testi religiosi degli ebrei. Infine, l’Inquisizione romana prendeva in considerazione come appartenenti all’ambito dell’eresia comportamenti genericamente eterodossi, che spesso vedevano intrecciarsi residui ereticali, pratiche antireligiose o blasfeme, costumi sessuali, bassa magia. I casi indagati da Fragnito riguardano soprattutto l’impatto della Controriforma sugli ambienti intellettuali italiani e sulla fruizione della cultura alla luce degli atteggiamenti censori dell’inquisizione.
Giochi di intellettuali
La fede nella guida degli Antichi che aveva illuminato l’esperienza culturale degli umanisti poteva ormai sembrare per molti versi morta e sepolta; stritolata nella repressione convergente della Riforma e della Controriforma, condannata a sembrare un gioco d’intellettuali dinanzi alle sanguinose guerre di religione. La Realpolitik, insomma, aveva la meglio sulle belle speranze: ma non l’aveva forse anticipato Machiavelli nel Principe?


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