QUANDO L’ANTICHITà€ SCOPRàŒ LE TRADUZIONI

by Editore | 15 Giugno 2012 7:01

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Che il battito d’ali di una farfalla in Brasile possa provocare un terremoto in Texas siamo ormai pronti ad ammetterlo. Ma che la traduzione sbagliata di una parola possa cambiare la storia dei rapporti tra le culture suscita un certo stupore. Eppure sembra proprio che sia andata così. Il come ce lo racconta Maurizio Bettini in Vertere, un bellissimo libro dedicato all’antropologia della traduzione nella cultura antica (Einaudi). Ironia della sorte, il termine incriminato è proprio il latino traductum.
Che nella lingua di Roma significava preso a prestito, introdotto. Ma nel Quattrocento l’umanista Leonardo Bruni, cancelliere di Lorenzo il Magnifico, interpretando un passo di Aulo Gellio, cambia di senso alla parola e, per la prima volta nella storia, trasforma «prestato» in «tradotto». Un errore da matita blu? O il colpo di genio di un maestro dell’interpretazione? Difficile dirlo. L’unica cosa certa è il successo di questa nuova accezione di traducere. Che da quel momento passa a significare la traduzione come la intendiamo oggi. Cioè come il trasporto di un significato da una lingua all’altra. Ma per gli antichi non era affatto così. E non lo è nemmeno per le culture extrauropee. Che hanno in materia un’idea molto lontana dalla nostra.
In India tradurre non ha nulla a che vedere con la fedeltà  all’originale. Ma è a tutti gli effetti la creazione di una apparenza illusoria, di un miraggio. Come dice chiaramente il termine sanscrito vivartana che indica un simulacro, un abbaglio. Come una corda può sembrare un serpente, così la traduzione può sembrare il testo tradotto. È chiaro che in una cultura che teorizza la reincarnazione, la traduzione stessa è una forma di reincarnazione delle parole in una nuova opera. In arabo tarjama, oltre che traduzione, significa anche biografia e definizione. Come dire che al traduttore è riconosciuto un ruolo attivo, che ne fa un narratore, un rifinitore di ciò che sta traducendo. Una via di mezzo tra il ghostwriter e l’editor. Qualcosa di simile pensano molte culture africane. Per esempio in Nigeria le parole usate sono taèpiae kowache hanno in sé l’idea, molto decostruzionista, del rompere e del ricomporre. Disfare un racconto per ritesserne il filo in uno nuovo.
Il confronto con la traduzione degli altri, secondo l’autore, fa fare uno scatto in avanti anche alla nostra idea del tradurre. Allargando i confini di quell’imperialismo linguistico che porta l’Occidente a proiettare le sue categorie culturali anche su chi la pensa diversamente. Colonizzando le culture attraverso le parole. Anche perché questa fluidità  inafferrabile del senso che altri popoli accettano è quasi inaccettabile per la ragione occidentale – soprattutto anglofona – che tende ad omologare tutto a sua immagine e somiglianza. A fissare i significati delle parole per ridurre al massimo il divario linguistico.
Ma c’è di più. La nostra modernità  non ha colonizzato solo le altre culture.
Ha cannibalizzato anche gli antenati. Proiettando sul passato la nostra idea di traduzione. Che i Greci non avrebbero condiviso. E i Romani solo in parte. Perché il traduttore latino è soprattutto un interpres, cioè un addetto alla politica, agli affari e al commercio. Lo dice la parola stessa interpretare, che in origine vuol dire adeguare un prezzo all’altro, mediare tra costi e ricavi. In fondo l’interprete è colui che governa lo spread, linguistico ma anche economico. Roma in questo ci anticipa perché il rapporto fra interpretariato ed economia è sempre fondamentale. Per i fantasiosi Greci invece tradurre è una ricreazione, una riarticolazione. Una reinterpretazione compiuta sotto il segno di Hermes, dio dell’ermeneutica, che mette in forma di parole la lingua muta degli dèi. Per loro il traduttore ideale è il poeta che non fa traslocare il senso da una lingua all’altra. Ma lo ricrea facendo da decoder del dio. O del demone creativo che lo possiede e parla in lui. E attraverso di lui. A contrapporre per primi la traduzione fedele a quella libera, la letteralità  e l’interpretazione sono di fatto Ebrei e Cristiani quando compiono l’impresa di tradurre la Bibbia in greco per la Biblioteca di Alessandria. È la cosiddetta versione dei Settanta che, secondo il mito, sarebbe stata dettata direttamente dal Signore ai sapienti incaricati dell’opera. Risultato, 70 traduzioni miracolosamente identiche all’unico originale. Il messaggio dell’Altissimo non ammette qui pro quo e tradimenti. Ergo, solo lui può farsi interprete di se stesso. Parola di Dio.
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IL SAGGIO
“Vertere” di Maurizio Bettini (Einaudi, pagg. XX -316, euro 23)

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