QUANDO LA TERRA é PRECARIA
Il problema principale è superare l’ansia, costante, sottile. Resistere all’istinto animale di scappare chissà dove. Controllarsi per non spaventare i bambini. Cinque minuti fa c’è stata una scossa piuttosto forte, breve per fortuna, in casa l’abbiamo sentita con precisione: il pavimento è scivolato sotto ai nostri piedi come fosse un tapis roulant. Qualche secondo, non più di dieci. Il problema principale è che dopo la scossa si rimane in silenzio per un attimo, leggermente storditi, come ad aspettare di capire se è finita davvero o se la terra riprenderà a tremare.
Questo continuo passare dalla normalità all’eccezionalità sfinisce. Qui si capisce molto bene che, fino ad oggi, qualunque gesto della tua giornata è stato giocato su una presunzione di inviolabilità , direi quasi di invincibilità , e che smantellare tale presunzione è il primo capillare danno di questo terremoto senza fine. Come abitare con uno sconosciuto, qualcuno di cui non si possono prevedere le azioni e le reazioni, ma illudendosi di poterlo controllare. La stabilità di ieri, dell’altro ieri, di appena un mese fa, sembrano improvvisamente momenti d’ignara felicità , quando credevamo di abitare un’area non interessata a movimenti tellurici, quando funzionavano le certezze e non si sospettava che, sempre, coltivare troppe certezze è un modo per rimuovere i problemi di qualunque natura essi siano.
Il mio osservatorio su questa particolare stagione dell’Emilia Romagna, che è la mia regione di adozione, è la mailing list di un gruppo di lettori e aspiranti scrittori con i quali ho lavorato, verso la metà dell’aprile scorso, nei locali della biblioteca di Crevalcore. Meno di due mesi dopo quell’esperienza, gran parte di quei venti allievi che formavano la mia classe sono diventati dei profughi. E quella mailing list creata per scambi letterari è diventata un bollettino di guerra. Paolo e Laura, sono, come si dice nel gergo dei soccorritori, attendati, ecco cosa scrivono: «Abitiamo proprio dietro al comune di Sant’Agostino, per il momento hanno evacuato la zona e non possiamo rientrare, ma la nostra casa ha retto bene, fateci sapere di voi». Altri, come Angela, hanno dovuto sperimentare la loro prima notte in auto: «Reduce da una notte insonne, eccomi, ancora impaurita e terrorizzata. Siamo rientrati in casa, ancora con diffidenza, tenendo sempre in vista la porta d’uscita. Con la morte nel cuore, pensando alle persone morte, alle loro famiglie e a coloro che sono fuori casa, vi saluto con grande affetto». Teresa deve assistere i vicini che hanno perso tutto: «Un’azienda di ceramica è crollata proprio davanti a casa nostra portandosi via la vita di due persone e distruggendo un’impresa che andava bene. Conosco i titolari, brave persone che lavorano lì con le famiglie. Distrutti dal dolore». Come la mailing list anche la biblioteca di Crevalcore ha cambiato funzione, Monica, la bibliotecaria mi scrive: «Il municipio è a pezzi tanto che si è trasferito in toto in biblioteca. La biblioteca è stata svuotata in un paio di giorni. È stato come se avessero cancellato oltre dieci anni di lavoro. Ci vorrà un po’ a far ripartire tutto, ma ci siamo, siamo vivi, questo è l’importante». C’è come un’ostinazione di questo terremoto a cancellare la storia di questa regione; l’abbattimento delle torri, quella di Novi si è sbriciolata in seguito alla scossa di domenica notte, appare come una metafora della fragilità della nostra memoria. Quei monumenti franati sono il quadro clinico della nostra fragilità . Ecco Simonetta: «Credevo proprio che fosse la fine. Sembrava di essere in una nave con mare forza nove. Non stavo in piedi e cadevano cose da ogni parte. Quindi svegliare i ragazzi di forza, trascinarli fuori quasi in mutande, prendere il cane al guinzaglio perché non scappasse dalla paura, e tutti nel cortile della Coop. Poi il ritorno a casa ma, anche adesso, in questo momento una lieve scossa! Dio che paura! Sempre pronti a scappare». Ecco proprio questa condizione di precarietà credo sia la particolare condanna comminata a questa gente che, accogliendomi come emiliano adottivo, mi ha insegnato una concezione pratica, stabile, del mondo. Scrive Federica: «Abito a Mirabello, mio marito ha perso la sua azienda, il capannone è crollato e con lui è crollata una parte di noi, una parte importante. Ci riprenderemo, per adesso affrontiamo la vita giorno per giorno cercando di aiutarci a vicenda per superare questa catastrofe. Vi mando un abbraccio». Ecco, posso fare riferimento al mio fatalismo atavico adesso e provare a rasserenare chi mi circonda con dosi massicce di quel relativismo mediterraneo che mi porto dentro da sempre. Ma poi si capisce che tutti qui hanno bisogno di aiuto, ma nessuno ha bisogno di consolazione: «Un abbraccio fortissimo da noi che siamo fortissimi. Addirittura più del terremoto! :)».
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