“Industria a picco, ora siamo all’ottavo posto”

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ROMA – Sorpassata dall’India, dal Brasile e dalla Corea del Sud, strangolata da una «feroce» stretta creditizia, colpita al cuore da un terremoto che ha assestato una «botta micidiale alla nostra competitività ». La manifattura italiana «soffre e arretra», e sotto lo schiaffo della seconda ondata recessionistica mette a rischio «la stessa sopravvivenza» di suoi importanti settori. Servirebbe una scossa nella politica industriale, ma non c’è. Ci vorrebbe una ondata di investimenti da parte delle imprese, ma i ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione e il credit crunch dominante soffocano ogni intenzione. 
E’ con queste parole che il Centro Studi di Confindustria, nel suo “scenario” di giugno, descrive il quadro in cui si muovono le aziende italiane. Siamo in netta scivolata, avverte: dal 2007 al 2011 siamo caduti dal quinto all’ottavo posto nella graduatoria dei primi venti Paesi per produzione manifatturiera, sorpassati appunto da India, Brasile e Corea del Sud. La Cina è rimasta saldamente in testa alla classifica mondiale dopo aver scalzato, tre anni fa, gli Usa.
La nostra quota di produzione, invece, in cinque anni, è scesa dal 4,5 al 3,3 per cento (quella dell’Eurozona dal 27,1 al 21 per cento) e dai segnali che arrivano dalle fabbriche non pare che la tendenza vada mutando. L’Inps, infatti, fa notare un nuovo balzo nelle ore di cassa integrazione richieste dalle aziende durante il mese di maggio: sono aumentate del 2,7 rispetto allo stesso mese dell’anno scorso e del 22,5 per cento rispetto all’aprile 2012.
La domanda interna sta subendo i colpi «di una vera e propria prolungata contrazione», ma anche il quadro dell’export è in piena fase di trasformazione. La crisi, segnala il rapporto di Confindustria, sta mettendo a dura prova quella che per decenni è stata la bandiera del “made in Italy”: il settore della moda e del design. La quota del «fashion» – fra il 1991 e il 2011 – è scesa dal 21,5 al 13,9% delle esportazioni. C’è anche una buona notizia. A dispetto della «débacle di computer ed elettrodomestici», la quota generale dei prodotti con maggiore intensità  tecnologica ed economie di scala è salita dal 60,8 al 66,9 per cento. 
Nei fatti questa è una delle poche voci positive del rapporto, quella che ispira a Corrado Passera, ministro dello Sviluppo, una lettura meno oscura sui dati forniti dalla impese. «Stiamo comunque parlando di un Paese, il nostro, che anche in un momento così difficile vede le sue esportazioni crescere oltre il 10 per cento», ha detto.
Ma in realtà  ai mali vecchi (i 180 giorni che devono passare prima che un’azienda possa essere pagata dalla Pubblica amministrazione) se ne sono aggiunti di nuovi. In Emilia, avverte il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, per via del terremoto che ha messo in ginocchio una delle zone più attive del Paese, «potrebbe esserci uno stop produttivo di 4-6 mesi, con una perdita per l’Italia di qualche frazione di Pil». Oltre diecimila posti sono a rischio. 
Confindustria fa un po’ di autocritica, ma lancia anche un allarme alla politica. Il rapporto denuncia un «alto grado di inerzia» delle stesse aziende. Tra il 2000 ed il 2010 la quota di imprese che non ha accresciuto la propria dimensione ha raggiunto il tetto del 66 per cento sul totale. Solo il 16 per cento è riuscito ad «ingrandirsi», un altro 18 è stato invece costretto al «ridimensionamento» per via della crisi. Fuori dalle fabbriche non c’è stato aiuto: «I nostro – avverte Fulvio Conti, vicepresidente di Confindustria per il Centro Studi – è un Paese lento, manca una visione di lungo periodo, manca un progetto che identifichi le priorità  e le linee di sviluppo».


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