Piazza Tiananmen, oggi

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Oggi è l’anniversario del massacro di Piazza Tiananmen, avvenuto a Pechino il 4 giugno del 1989. In quell’occasione molti manifestanti che chiedevano riforme democratiche –  la cifra non è mai stata accertata: si va dalle poche centinaia a migliaia – vennero uccisi dall’esercito cinese su ordine del governo di Deng Xiaoping.

Come ogni 4 giugno da qualche anno a questa parte, il governo cinese censura i riferimenti a Tiananmen con particolare attenzione. Non solo non è stato organizzato alcun evento per commemorare le persone uccise, ma ogni tentativo di parlarne è stato proibito dalle autorità . La censura è arrivata anche su Internet: alcune parole di ricerca legate al massacro come “23″ (il 23esimo anniversario) o “per non dimenticare” sono state bloccate sul sito Sian Weibo, la principale piattaforma di microblogging cinese. Anche l’emoticon a forma di candelina è stato disattivato. L’elenco completo delle parole censurate si può leggere qui. La censura ha anche impedito agli utenti di cambiare le foto dei loro profili, per timore che venissero diffuse immagini della strage. Il governo ha aumentato la sicurezza in molte città , imprigionato dissidenti e intimato a quelli che si trovano già  ai domiciliari di non parlare con la stampa e non fare dichiarazioni sull’anniversario. Ieri sera a Hong Kong migliaia di persone hanno preso parte a una veglia per ricordare le persone uccise nel massacro.

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Le proteste erano iniziate il 15 aprile 1989 dopo la morte del segretario del partito comunista cinese Hu Yaobang, considerato un riformatore liberale. Mezzo milione di studenti, intellettuali e operai marciò fino alla piazza principale di Pechino per chiedere maggiori libertà  politiche, libertà  di stampa, riforme economiche e la fine della corruzione, molto diffusa allora come adesso. Ci furono proteste pacifiche anche in altre città  della Cina, come Shanghai e Wuhan. Il governo si dimostrò inizialmente incerto se dialogare o meno con i manifestanti, decisi a occupare la piazza fino a quando le loro richieste fossero state soddisfatte. Il 13 maggio gli studenti iniziarono uno sciopero della fame che diede nuovo vigore alle proteste e conquistò nuovi sostenitori al movimento in tutto il Paese.

Il governo decise allora di agire e il 20 maggio impose la legge marziale nel Paese. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno i convogli militari entrarono a Pechino facendosi strada tra le barricate dei manifestanti, che reagirono lanciando sassi e bombe molotov contro i soldati. L’esercito ricevette l’ordine di sgomberare la piazza entro l’alba e verso le 4:30 del mattino iniziò a sparare contro i civili, mentre i carri armati travolgevano barricate e i manifestanti che, secondo i giornalisti stranieri che hanno raccontato la vicenda, gridavano «perché ci state uccidendo»? Alle 5:40 la piazza era stata sgomberata. Il numero dei civili uccisi non è mai stato stabilito. Secondo il governo cinese i morti – soldati inclusi – sarebbero 241 e i feriti 7 mila. La NATO parla invece di 7 mila morti mentre un funzionario cinese della Croce Rossa ha detto che i morti sono stati 5 mila e i feriti 30 mila. Molte delle persone non furono uccise in piazza ma nei dintorni. La repressione continuò nei giorni seguenti: persone sospettate di sostenere i manifestanti vennero arrestate in tutta la Cina, i funzionari del partito che simpatizzavano per le proteste vennero rimossi dai loro incarichi, i giornalisti stranieri furono espulsi dal Paese mentre la stampa nazionale venne fortemente censurata per controllare la copertura del massacro.


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