Philippe Forest

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Di solito si evoca la storia passata come una sequenza di eventi necessari e inevitabili. Io invece cerco di raccontare il passato in una prospettiva aperta, ricordando al lettore l’infinita possibilità  dei possibili di cui parlava Joyce». È partendo da questo presupposto che Philippe Forest ha scritto il suo ultimo romanzo, Il secolo delle nuvole (traduzione di Gabriella Bosco, Alet), un romanzo affascinante e scritto benissimo che va avanti e indietro nel tempo per raccontare la vita del padre pilota di Air France. Attraverso la vicenda del genitore scomparso una decina di anni fa, Forest ripercorre la storia del secolo scorso (al cui centro figura la disfatta francese di fronte ai nazisti) e quella dell’aviazione con la sua mitologia fatta di speranze e catastrofi. «Scrivo sempre a partire da un materiale autobiografico, ma ogni volta cerco di trovare una forma diversa», spiega l’autore di Tutti i bambini tranne uno. «Qui ho provato ad abbracciare la storia del XX secolo attraverso la storia di mio padre».
L’aviazione è stata uno dei grandi sogni del XX secolo. Cosa ha rappresentato?
«Nell’immaginario collettivo, il XX secolo è stato il secolo di tutti gli orrori, della tragedia e della catastrofe. Il che è sicuramente vero. Ma è anche un secolo che ha creduto nel progresso tecnico e nella democrazia. La storia dell’aviazione permette di evocare uomini che, non senza contraddizioni e errori, hanno difeso ideali che mi sembra giusto continuare a difendere. Ad esempio, Saint-Exupéry rappresenta questa speranza e questa fiducia nel futuro. Naturalmente, so bene che la storia dell’aviazione è anche legata alla guerra e alla catastrofe, motivo per cui nel romanzo non dimentico Lindbergh e Mermoz, due eroi ambivalenti che furono affascinati dal nazismo e dall’estrema destra».
Il mito dell’aviazione corrisponde al suo immaginario personale?
«Certo, per me rappresenta la possibilità  di sottrarsi alla legge di gravità , di galleggiare in aria e di essere liberi. I piloti di aerei vivono in cielo, sospesi tra due paesi, fuori da uno spazio preciso e fuori dal tempo».
Lei scrive che tra le nuvole si assiste a uno spettacolo magnifico di cui però non si capisce nulla…
«E vero. Ma la metafora delle nuvole si addice anche alla letteratura che è una forma di estasi di fronte a un paesaggio incomprensibile, il paesaggio del tempo e della storia». 
Nei confronti dei grandi avvenimenti della seconda guerra mondiale, suo padre sembra un po’ come Fabrizio del Dongo, il personaggio di Stendhal che in mezzo alla battaglia di Waterloo è incapace di capire veramente cosa stia accadendo…
«Nel romanzo mi batto di continuo contro l’illusione retrospettiva di chi racconta il passato a partire dalle conoscenze del presente. Volevo mostrare che un uomo al centro di un avvenimento storico non sempre si rende conto di ciò che la storia sta producendo tutto intorno». 
L’ultima frase del libro sembra dire che di tutta la vita restano solo i romanzi…
«Vale a dire poca roba. Tutta la materia della storia è fatta di finzione. Come dice Shakespeare, noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni». 
In fin dei conti, Il secolo delle nuvole è – come quasi tutti i suoi libri – un libro sulla morte…
«Il romanzo da sempre ruota esclusivamente attorno a due temi, il lutto e il desiderio. Lutto e desiderio sono presenti in tutti miei libri. I miei personaggi sono tristi e malinconici, ma abitati da un desiderio che li spinge verso gli altri e impedisce loro di cedere completamente alla malinconia».
Perché il dolore è la cifra dominante della sua letteratura?
«Il dolore non esclude la felicità . Anzi, sono due realtà  che non possono essere separate. Io non avrei mai intrapreso la strada della letteratura senza il dolore dell’esperienza che ho raccontato nel mio primo romanzo, vale a dire la morte di mia figlia. La letteratura serve a confrontarsi con le domande che di solito restano senza risposta, e il dolore è una tra le più importanti. Non c’è romanzo senza meditazione sul male, la tragedia e la sofferenza». 
A volte le hanno rimproverato di essere troppo impudico nella rappresentazione del dolore. 
«C’è chi lo pensa. In me però non c’è alcun esibizionismo. Chi condanna la dimensione patetica dei miei libri in realtà  rifiuta la dimensione tragica e oscena presente nella sofferenza».
Eppure oggi il dolore è diventato uno spettacolo molto esibito…
«Televisione, cinema e letteratura mostrano la sofferenza, soprattutto quella dei bambini, per trarne una lezione positiva di coraggio o di ottimismo. In questo modo però si rimuove la dimensione irriducibilmente tragica del dolore. Vuole a tutti i costi dare un senso al dolore, mentre il compito della letteratura è proprio quello di testimoniarne il non senso radicale. Il mio modo di presentare il dolore è irrecuperabile. Non produce alcuna morale ottimista. Ma proprio per questo è più vero».


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