Patto per non delocalizzare
La proposta della Cgil di Modena per sventare il rischio della fuga fuori distretto delle imprese«Una cosa è certa, un terremoto in una zona così industrializzata non c’era mai stato in Italia». La premessa del segretario della Camera del lavoro di Modena, Donato Pivanti, è d’obbligo. Se infatti il sisma dell’Aquila venne definito, con una semplificazione giornalistica, come la tragedia degli studenti, gli eventi sismici prima nel ferrarese poi nel modenese verranno ricordati soprattutto per la morte dei lavoratori, in particolare nei capannoni industriali della grande o media impresa. Ma il problema che si pone oggi nella Bassa emiliana non è cosa da poco conto e non si era mai posto, almeno in questi termini, all’Aquila, che ha un tessuto produttivo di tutt’altro tipo: «I lavoratori vivono una condizione particolare, doppia – spiega Pivanti – da un lato sono preoccupati per la propria sicurezza, tanto che preferiscono dormire in tenda e non rientrare nelle proprie case, ma contemporaneamente hanno paura di perdere il posto di lavoro e temono che la vocazione industriale di questa regione venga tradita». Il pericolo in agguato si chiama soprattutto delocalizzazione. «Azioni di forzatura», le definisce il segretario della Cgil Susanna Camusso che chiede «un impegno serio del governo» per fermarle. Anche perché, attacca Camusso, «gli imprenditori non possono alzare le mani e dire “noi non c’entriamo niente”». Invece, è «assolutamente legittimo», aggiunge, pensare che «una serie di norme che hanno favorito la costruzione rapida di capannoni non hanno tenuto sufficientemente in conto l’evoluzione delle conoscenze sui fenomeni sismici».
Così, aziende come la Magneti Marelli, che aveva deciso di smantellare lo stabilimento di Crevalcore e trasferire alcune linee di produzione a Bari, solo grazie alla lotta delle rappresentanze sindacali (compresa la Fiom, che l’azienda voleva escludere della trattativa) da ieri pomeriggio ha riavviato la produzione nella zona terremotata. Mentre piovono denunce come quella del segretario della Fillea-Cgil di Bologna, Maurizio Maurizzi, che racconta di «due aziende del legno di San Giovanni in Persiceto autodichiarate inagibili dal proprietario, il quale, con la scusa della temporanea sospensione dell’attività , ha provveduto a caricare i macchinari sul camion pronti a partire per la Romania». Da parte loro, però, le imprese lamentano il rischio di un credit crunch che ieri il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, ha smentito: «Le banche – ha detto – sono pronte a fare la loro parte, vediamo di trovare un pezzo di liquidità a basso costo e poi, attraverso le provvidenze regionali, attraverso l’intervento dello Stato, e attraverso il nostro sacrificio, ridurremo quanto possibile il tasso di interesse per il sostegno finanziario alle imprese coinvolte». Sarebbe quasi una prospettiva, se non fosse che lo stesso Mussari – dopo aver riconosciuto l’«errore» delle banche di applicare il costo di 5 euro ai bonifici in favore delle popolazioni colpite dal sisma emiliano e aver assicurato che «quei soldi verranno restituiti» – cita L’Aquila per dire che il sostegno delle banche alle imprese e alle famiglie terremotate non mancherà come non è mancato nella ricostruzione aquilana. E allora, siamo sicuri che saranno guai.
Il problema della delocalizzazione però rimane il cruccio più grande di lavoratori e sindacati. Riguarda l’agroalimentare come il tessile, le ceramiche, la lavorazione del legno e le imprese metalmeccaniche. Un problema che si pone soprattutto dopo che alcuni dei comuni più martoriati hanno chiuso per ordinanza del sindaco l’accesso alle zone industriali. È successo per esempio a Mirandola dove il provvedimento ha investito la zona interessata dai crolli che il 29 maggio hanno mietuto due vittime tra i lavoratori dei capannoni.
Stiamo parlando del cuore europeo delle imprese biomedicali, quelle che producono componentistica per emodialisi, ossigenatori, eccetera, destinati per il 40% al Sistema sanitario nazionale e per il resto ad esportazioni. Un settore che non può conoscere interruzioni, anche perché «i magazzini in poco tempo si svuoteranno», come racconta ancora Donato Pivanti. E allora «sarà difficile fermare la delocalizzazione verso altre “camere bianche” già presenti in Italia e all’estero, ossia quei particolari ambienti lavorativi adatti a questo tipo di produzione, che non si ricostruiscono in un giorno».
Una proposta però la Cgil di Modena ce l’ha già e si chiama «Contratto di programma». «Bisogna chiamare in campo governo, regione e Comunità europea per la ricostruzione – spiega Pivanti – con un programma che ammetta anche la produzione momentanea fuori distretto e contempli pure la continuità degli incentivi. Ma a un patto: che le imprese garantiscano, oltre ai migliori ammortizzatori sociali per superare questa fase, di ritornare il più presto possibile a produrre qui, in Emilia, ricostruendo quanto distrutto e con criteri sismici adeguati. La Comunità europea deve farsi garante di questo patto e del rientro in loco delle attività produttive. Ecco, questa è una possibile soluzione, altrimenti l’alternativa è la desertificazione».
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