Partito, utenti e pubblicità , il triangolo dei media cinesi

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Dopo il poliziotto e il minatore, quello del giornalista è in Cina, statistiche alla mano, il mestiere più pericoloso. Del resto l’informazione costituisce oggi la linea avanzata del corpo a corpo che ogni giorno infuria nel paese tra una società  in mutazione accelerata e il sistema politico-istituzionale dello stato-partito che, dopo aver generato il big bang delle riforme economiche, per restare in sella si trova a domare spinte sempre più complesse e contraddittorie. L’interazione che ne deriva non è sempre brutale, violenta o esclusivamente censoria. Col passare del tempo, infatti, si raffinano, da parte del potere, metodi e strumenti per penetrare all’interno, e condizionare, l’universo sempre più vasto e complesso dei media cinesi. D’altra parte, come conferma un recente studio arrivato da Harvard, How Censorship in China Allows Government Criticism but Silences Collective Expression focalizzato soprattutto sui social media, il potere consente le critiche, anche le più violente, purché non incitino alla mobilitazione nel mondo reale (gking.harvard.edu/gking/files/censored.pdf).
La descrizione di questa dinamica sempre più complessa è uno degli aspetti più interessanti di Ho servito il popolo cinese di Emma Lupano (prefazione di Marco Del Corona con un saggio di Alessandra C. Lavagnino, Francesco Brioschi Editore 2012, pp. 178, euro 15) che racconta in modo chiaro e con dovizia di dati aggiornati le ultime evoluzioni del corpo a corpo. Il titolo del libro nasce dall’esperienza personale dell’autrice, giornalista e docente di Lingua e cultura cinese all’Università  degli Studi di Milano, che tra il 2008 e il 2009 ha avuto l’opportunità  di lavorare per qualche mese in due diverse redazioni cinesi: l’Agenzia di stampa delle Olimpiadi e il People’s Daily on line. E se fare la giornalista come il partito comanda equivale a «servire il popolo» allora, scrive Emma Lupano, «lo ammetto: ho servito il popolo cinese». Un’esperienza, soprattutto quella vissuta all’interno dell’organo ufficiale del partito, accessibile a pochi (ci vogliono requisiti di lingua ma anche guanxi, cioè entrature influenti, per poter varcare certe soglie) che ha permesso a Lupano di acquisire qualche chiave in più per decifrare il mondo dei media. Tanto più che ciò è avvenuto nel momento in cui l’apparato dello stato-partito ha deciso una controffensiva senza precedenti, a livello globale, per affermare la propria versione del mondo, dopo aver constatato, con lo scoppio della rivolta tibetana a ridosso delle Olimpiadi nel 2008, che nonostante la crescita della sua statura economica e del suo potere, la Cina dello «sviluppo pacifico» suscita ancora diffidenze, timori e antipatie. Di qui la decisione di investire decine di miliardi di dollari in una campagna di allargamento e rafforzamento delle redazioni dei media ufficiali nell’intero pianeta.
Dal volume esce un affresco vasto, completo di mappe ragionate, che descrive il mutamento della dimensione mediatica negli ultimi 30 turbinosi anni della Cina, dalla carta stampata (9851 riviste e 1937 quotidiani), alle televisioni (3000 emittenti) fino all’esplosione di Internet, la «frontiera pattugliata», che per sua stessa natura e vastità  (513 milioni di netizen e 250 milioni di utenti registrati ai microblog nazionali) costituisce il teatro d’eccellenza in cui soprattutto le giovani generazioni cinesi esibiscono la propria voglia di protagonismo e spesso di sfida, come anche, purtroppo, le loro pulsioni peggiori, in una interazione di cui è ancora difficile capire gli sbocchi.
In quello che può essere descritto come un vero campo di battaglia, si dispiegano così strategie e riforme istituzionali che, oltre a dover quadrare il cerchio tra mercato e profitto da una parte e controllo dall’altra, nel loro tentativo via via più occhiuto e raffinato per «armonizzare» il tutto, suscitano reazioni sempre più audaci e ingegnose, complice l’avanzamento delle tecnologie ma anche la tradizione di una lingua che, grazie alla sua struttura e ai suoi accenti, consente giochi di parole e allusioni geniali.
Né mancano nel libro i casi di inchieste clamorose e le storie individuali di giornalisti, opinionisti e blogger (ultima genia dei «cento fiori» virtuali) che, coraggiosi o rassegnati, sono tutti consapevoli di vivere su una frontiera mobile ed esposta, in continua trasformazione e tuttavia segnata, come rileva l’autrice, da una continuità  di fondo: quella del sostanziale controllo sul settore della leadership di partito e di governo. Il che complica assai la vita perché nell’evoluzione degli scenari al dunque i padroni a cui i giornalisti devono rispondere sono tre, in un’interazione micidiale: «il partito che non molla la presa, il pubblico che deve essere soddisfatto anche nei suoi gusti più volgari, e la pubblicità  commerciale, che apre e chiude la borsa a suo piacere». 
Quello che il libro fa invece solo parzialmente (ma nessuna inchiesta giornalistica finora lo ha mai fatto, e non è un caso) è addentrarsi nell’articolazione del potere all’interno dei media. Il Pc cinese non è più un monolite. Al suo interno si agitano correnti e fazioni che non rispecchiano più le contrapposizioni di un tempo ma si collegano piuttosto alla diversificazione, profonda, degli interessi economici che fanno sempre più fatica a richiamarsi all’ideologia unica, per quanti sforzi faccia la retorica ufficiale. 
Lo scontro avviene anche nei media, come si evince dal ruolo della stampa più liberal e spregiudicata del Gruppo Southern, ben descritta da Emma Lupano, il cui agire si ispira a valori più vicini all’occidente che nel panorama interno corrispondono a gruppi, economici e politici, ben definiti. Ma finché i vertici cinesi occulteranno le proprie divergenze dietro la facciata dell’«armonia», timorosi che tutto finisca per sfasciarsi, sarà  difficile capire qual è e quale potrà  essere il ruolo dei media nel possibile futuro di una dialettica democratica cinese.


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