by Editore | 2 Giugno 2012 14:19
La visione del mondo attraverso gli occhi folli del saggio è un percorso a ritroso, dalla logica fino all’incoscienza«Tutti noi siamo archivi ambulanti dell’inconfessabile, sepolcri imbiancati che nascondono le loro vere pulsioni parlando del tempo o di scarpe… siamo addestrati a nascondere le vite che sognamo». Il sogno, la realtà : narrazioni. Roba da romanzi, intrecci fittizi, bugie – uno dei significati del termine story. Per John Burnside, una storia è «una serie di momenti immaginari, eppure non meno nitidi della realtà », un alternarsi altalenante di lucida razionalità e stati di impressionistica visione.
Quale romanzo, si dirà , non gioca con queste variabili, proprie di quel riflesso sulla realtà , sulle realtà , che è l’essenza inconfessata della fiction? Ogni storia, ogni racconto è sempre un riflesso distorto del reale, come attraverso uno specchio, ma uno specchio incrinato. Uno specchio che coincide con gli occhi dell’autore, piantati, incollati su quel decifrabile mondo di fuori, ma intenti a leggere davvero soltanto infiniti mondi interiori. Un universo di spazi bui e scollegati, una frammentazione di senso a cui soltanto la visione può ridare un disegno.
Secondo William Blake la via per la saggezza passa attraverso gli eccessi, ed è questa un’intuizione che risuona, riecheggiando con costanza rombante, in tutta la narrativa di John Burnside, e ora anche nel suo Una bugia su mio padre, uscito in maggio per Neri Pozza, nella raffinata traduzione di Massimo Ortelio (pp. 303, euro 16.50). Il continuo procedere per illuminazioni fulminanti a cui quest’opera ci sottopone, un avanzare fulmineo dalla tenebra allo splendore, ma a uno splendore psichedelico, ricorda da vicino la poetica delle migliori prove narrative di Burnside, da Glister al recentissimo A Summer of Drowning.
Una bugia su mio padre non è l’ennesima storia scozzese di una famiglia scardinata, di un focolare domestico dissociato e alla deriva, ma la narrazione di uno spazio, di un inconscio familiare oscuro, in cui la presenza cupa di un padre ubriacone e perverso incombe e discolora le vite dei suoi cari: quelle di una moglie sfortunata e forse ancora legata a un precedente amore, quella di un figlio costantemente impaurito che impara a parlare con i fantasmi dei fratellini morti, quella infine di una figlia che, maternamente, unica resiste alla pressione familiare, e unica rimane in contatto col padre, quando questi morirà in solitudine, in compagnia delle sue bottiglie.
Ma il testo è anche obliquamente un romanzo di formazione, in cui il protagonista, John, passa da un’infanzia di terrore e riferimenti saltati a un’adolescenza sbandata: anni che poi lo condurranno, nella maturità , a un continuo presente visionario e sonnambulo, scandito da estenuanti esperimenti con droghe chimiche e naturali, e sempre alla ricerca di un assolutorio limbo fatto di dissoluzione e dissolvimento: «Ero nel limbo, ma non in uno stato alterato di coscienza. Il mio limbo erano le ombre della sera in fondo al corridoio, la sagoma del cedro del libano in giardino, la quiete della notte quando potevo alzarmi e vagare indisturbato o sedermi nella sala di lettura, grato per l’assenza della televisione».
Questo limbo è, nella storia, un ospedale psichiatrico cui John perviene a più riprese, dopo i suoi infaticabili e artificialmente ricreati viaggi interiori, viaggi che ai medici appaiono immancabilmente come sospetti tentativi di suicidio. La visione del mondo attraverso gli occhi folli del saggio è un percorso a ritroso, dal noto all’ignoto, dalla logica all’incoscienza, quasi a ricordare la mistica dell’agnosìa, unica conoscenza possibile del divino a cui si giunge soltanto tramite l’abbandono della razionalità , in tensione perenne verso quell’abisso del mistero talvolta chiamato dio.
Il romanzo di Burnside mantiene il lettore costantemente in sospeso tra il baratro della visione e il concreto del reale, e con levità funambolica si sposta fugacemente sui binari di realtà parallele ma sempre possibili, proprio in quanto immaginate. Quasi a ricordarci che la fiction non vuol dire, soltanto, finzione, ma anche e soprattutto rappresentazione del reale, interno o esterno che sia. Quasi a rammentare al lettore distratto che ogni storia è sempre inevitabilmente narrazione, che ogni storia appartiene al nostro tentativo di ricollegare quanto di sconnesso esista al mondo, di tirarne i fili e intrecciarne le trame, alla ricerca di una coerenza che al caos evidentemente manca.
Il realismo visionario di John Burnside trova qui pace proprio nel tentativo di rievocare una coesione tra le due polarità dell’inconscio, o dell’ignoto, ovvero tra gli spiriti e i fantasmi, perfettamente consapevole del fatto che «i fantasmi sono privi di un vero potere, ma gli spiriti nutrono la nostra immaginazione, e sono capaci di tutto».
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