by Editore | 30 Giugno 2012 11:45
«Fare poesia è una fatica gioiosa. Sento molto la responsabilità della parola. Prima si pensa e poi si scrive». Elisa Biagini, 41 anni, è appena arrivata al Southbank Centre di Londra. È l’unica italiana invitata a partecipare al Poetry Parnassus, grande happening organizzato in occasione delle Olimpiadi e che si conclude domani notte. Ha portato il suo “bucato poetico”, rime scritte sui panni stesi. Con la scrittrice fiorentina sono stati invitati altri 203 autori, uno per ogni Paese partecipante ai Giochi. Tra loro tre premi Nobel: Seamus Heaney per l’Irlanda, Wole Soyinka per la Nigeria, Derek Walcott per Santa Lucia. E poi molti poeti famosi (la nicaraguense Gioconda Belli, l’americana Kay Ryan, il cinese Yang Lian) e altri meno noti al pubblico internazionale.
La festa dedicata alla poesia si tiene un mese prima di quel trionfo del corpo perfetto e efficiente che sono le Olimpiadi. Le liriche che ha portato a Londra seguono questo tema?
«No, non mi interessa il corpo perfetto. Anzi. Nei miei due ultimi libri (pubblicati da Einaudi, ndr) seguo altre linee di pensiero.
L’ospiteparla del corpo dell’anziano, per nulla efficiente. Con Nel bosco cerco di partire dalla frammentazione del corpo per poi ricostruirlo».
Nessuna concessione al valore estetico?
«Mi interessa il corpo politico, per esempio quello femminile, spesso campo di battaglia di questioni sociali. Mi incuriosisce come filtro nei confronti del mondo. Cerco di esplorare il corpo normale e, se non è così, allora mi attrae quello irreale, modificato. Oppure i momenti estremi».
Lei a Londra è la nostra Nazionale poetica. Ma in patria la poesia non se la passa bene: pochi soldi e poca attenzione.
«In Italia la poesia è sempre stata vista come elitaria, poco condivisibile, intellettualistica. Oppure legata allo sfogo personale: “soffro per amore, scrivo una poesia”. Senza nessun filtro linguistico. Benissimo raccontare quel che si prova, ma non basta perché questo sia poesia. Diventa tale quando si riesce a rileggere un evento privato in modo da tradurlo in un interesse comune, entra in gioco la dimensione sociale e politica della poesia. Dove in questo caso politica vuol dire ricerca del dialogo ».
Nell’immaginario comune sembra sia sempre tutto frutto dell’ispirazione del momento, senza un vero lavoro nascosto in ogni verso.
«È vero che le idee vengono nei momenti più inaspettati. Ma è altrettanto vero che io lavoro su un progetto. Si fa ricerca come la si farebbe per un romanzo o per un saggio. Leggo molti testi. Studio. Poi stendo quattro o cinque versioni della poesia. È raro che sia buona la prima. L’ispirazione va incanalata, gestita, limata».
Lei lavora spesso con i ragazzi. Che rapporto hanno con la poesia?
«Hanno una debordante necessità di raccontarsi. E colpisce che questo sia vero dappertutto, in Italia e all’estero».
Che cosa succede al Poetry Parnassus?
«Ci sono letture tematiche, che mettono insieme alcuni poeti in ogni sezione, da quella sui diritti civili a quella dedicata alla donne. Sono stati previsti molti laboratori, io ne terrò uno appunto sul corpo. Nella giornata inaugurale, martedì scorso, c’è stato il lancio dall’elicottero su Londra di segnalibri con i testi dei vari autori che partecipano».
Qualcuno avrà storto la bocca: troppo popolare.
«Invece questa capacità di cogliere e valorizzare l’elemento ludico è importante. Solo in Italia abbiamo un’idea punitiva della poesia».
Che cosa ha portato in Inghilterra?
«Agli organizzatori è piaciuta la mia idea del “bucato poetico”, un’installazione che ho realizzato per la prima volta a Firenze. Un vero bucato, con le camicie stese, su cui scrivo i miei versi, che stanno ad oscillare appese al filo. Ne dovremmo realizzare uno anche qui, ma lo saprò con certezza nelle prossime ore».
Lei scrive in italiano e in inglese. Quando ha iniziato la produzione bilingue?
«Ho vissuto per cinque anni negli Usa, prima ho studiato per il dottorato e poi ho insegnato. Quando inizi a sognare in un’altra lingua allora la puoi usare anche per scrivere versi».
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