by Editore | 6 Giugno 2012 7:02
Con L’indifferenza dell’assassino (Guanda, pp. 159, euro 14) Maurizio Cucchi approfondisce l’indagine sul male che iniziò, ragazzo, ne Il male è nelle cose (pubblicato però solo nel 2005). Stavolta Cucchi setaccia la sorgente, perché resti – nel cuore, e tra le pagine, e nonostante il male – la perla d’oro dell’uomo, cioè la sua compassione. Il libro si potrebbe intitolare anche Compassione per l’assassino, perché, a conclusione di tutto il male, non risulta vendetta bensì il risplendere della tenerezza dell’uomo di fronte alla crepa dell’uomo, pure assassino, pure efferato e pure indifferente all’efferatezza sua.
Questo cammino è tanto più reale perché è condotto sulle tracce di una cruda e amarissima vicenda svoltasi in una Stretta milanese della seconda metà dell’Ottocento. Cosa sia umano è la domanda che non smette di tormentare le pagine di questo libro. Maurizio Cucchi prosegue con la sua cartesiana integrazione del male nel dispositivo umano: cita spesso Lombroso, il quale intese espungere, catalogare, fornire ai componenti della retta vita sociale un Atlante con l’aiuto del quale riconoscere i «cattivi» al primo sguardo, addirittura dalla fisionomia. Apprezziamo la faticosa intenzione di Lombroso di proteggere il genere umano dalla sua secondaria paura (dopo la morte è l’avvento del male, del supremo avversario, quanto fa di noi i semoventi interrogatori senza risposta che siamo), ma un criminale non si riconosce dalla faccia, lo sappiamo: pensiamo al cannibale seriale Jeffrey Dahmer, al suo sorriso quasi infantile, al bel ciuffo che copre per metà la fronte alta. Solo una stria di freddezza di troppo, ma trascurabile, interpretabile da qualunque vittima potenziale come una nube di momentanea infelicità . Eppure quel signore mangiava i suoi simili.
Certo la maggior parte degli uomini non è macchiata da siffatti crimini. Ma potrebbe esserlo: ancora una volta, leggendo queste pagine di Maurizio Cucchi, si conferma la nobiltà del bene. Se il male è banale, il comportamento etico è il risultato di una scelta incessante. Etica è anche la scelta dell’autore di mantenere il suo stile lucido e tenero senza indulgere mai alla tentazione dello scavo morboso sotto la terra dove stanno sepolti i corpi delle vittime.
Con compostezza grande Cucchi distoglie il suo sguardo e il nostro dalla visione di quanto è stato disseppellito. Lo fa certo per compassione nei confronti dei morti. Lo fa per restituire ai morti la dignità della quale lo smembramento assassino li ha privati. Nel silenzio dei poeti si ricompongono i corpi come costellazioni. Viene ancora una volta da pensare che, forse, l’impossibilità di provare la compassione sia una malattia endogena dell’anima, prima che della morale, una forma cronica di solitudine, una piaga di alienazione che butta incessantemente fuori dalla sua anima il sangue vivo di un uomo. Se esistessero «i nati senza compassione» sarebbe giustificato parlare di follia di fronte ad essi, poiché sul crinale della compassione si gioca la scelta umana tra il bene e il male (in queste pagine significato addirittura dall’uccidere esseri umani familiari al cuore).
Chiunque abbia – e alleni – la consuetudine a identificare e identificarsi nel dolore di un altro, non può fargli più male, almeno non scientemente. Lo dice bene Cucchi: Boggia viveva da estraneo in un mondo di estranei. Ecco dunque l’asse di una differenza che spacca la specie umana in molte parti variabili e incommensurabili. Il crimine è senza dubbio la conseguenza di avere estromesso un altro dalla similitudine con sé (se non l’intero genere-uomo, come nel caso del nazismo, dove ognuna delle creature-mondo veniva considerata un «pezzo», era stata privata del nome; e la ripetizione sugli uomini di questo inedito stato di oggetti si sovrapponeva all’immagine che gli internati stessi avevano di sé, ne sfondava il comportamento morale, li autorizzava a divenire a loro volta minimi criminali, ladri di un niente che almeno li sfamasse, se non terrorizzati delatori).
I superstiti di Auschwitz confermano che quelli che usavano i neonati come piattelli da tiro erano uomini. Che erano uomini quelli che piegavano scientificamente gli uomini a uno stato animale. E uomo è anche il Boggia, così alieno all’umano, così come, dietro la fudoshin, l’atarassia apparente del samurai, c’è la complessità dei sentimenti umani e c’è l’orgoglio, la scelta fiera di non fare del male a nessun altro che a sé.
Questo libro, che aguzza la sua vista su un solo uomo, ha dunque il pregio di rappresentare una emblematica umanità del male, col tono lieve e quasi ilare di chi osserva un dramma lontano, ma emana la sua sentenza sull’assassino scendendo nel buio di una cantina – e per amore di una nipote: «Il Boggia – dice l’autore, per rassicurare la ragazza, il Boggia, qui assurto a paradigma di un imponderabile pericolo – non uccide per il sentimento. Si muove solo per i soldi, e premedita i suoi atti. Tranquilla». Tranquilli di fronte all’assassino siano dunque coloro che non hanno nulla da perdere se non la propria compassione. Anche quella per l’assassino.
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