NAPOLI COM’È OGGI VISTA DA UN FANTASMA

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La comunista che dà  il titolo al nuovo libro di Ermanno Rea è Francesca Spada, la stessa Francesca Spada intorno al cui suicidio, avvenuto nel 1961, lo scrittore costruì Mistero napoletano.
Era un racconto seducente: Rea indagava sulla morte di una militante del Pci, giornalista dell’Unità , che pagò duramente la propria irrequietezza culturale, una passione politica persino totalizzante, una donna incapace di sopportare le gabbie dei dogmi allestite dal partito di Togliatti. Francesca scontò la sua condotta irriguardosa verso la morale bigotta predicata, ma non praticata dal Pci, e anche l’eterodossia di suo marito, Renzo Lapiccirella, un intellettuale che amava discutere troppo le direttive di un vertice cittadino intriso di uno stalinismo caparbio e ottuso. Francesca visse il suo dramma nella Napoli del sindaco Achille Lauro e delle truppe americane ancora installate in una città  che era la vetrina, il cuore ferito della Guerra fredda.
Un libro fascinoso, un racconto-verità  il cui materiale narrativo non ha mai smesso di ulcerare una memoria che si voleva rendere inerte. Potere della miglior letteratura. E in effetti il senso più coinvolgente de La comunista(cui segue un altro racconto, L’occhio del Vesuvio, che ha poca o nessuna attinenza con il primo) è proprio la riflessione sulla forza della letteratura. Francesca ne La comunista
torna nella sua città , ma stavolta è un fantasma. Vestita d’un impermeabile bianco vaga fra i luoghi in cui si agitò la sua vita. Napoli è molto cambiata, il suo spazio, rispetto a cinquant’anni prima si è ristretto. Il suo amico di allora, lo scrittore Ermanno Rea, l’accompagna. Ma a lui preme soprattutto renderla partecipe di quel che è accaduto dopo l’uscita di Mistero napoletano.
Scomparsa nel ricordo, annullata come un ingombro fastidioso, Francesca ha ripreso a vivere un’esistenza letteraria, che ha la stessa pienezza di un’esistenza reale e una forza inquietante per chi aveva voluto rimuoverla. Un libro le ha ridato linfa ed energia, ma anziché collocarla in un luogo sublimato, distante dallo scorrere del tempo, la narrazione l’ha posta al centro di una memoria divisa.
Durante un incontro pubblico, avvenuto mentre Napoli è sommersa di rifiuti, un uomo si avvicina allo scrittore per chiedergli se lui di Francesca fosse stato innamorato e se Francesca fosse «una donna completamente disinibita, una libertina », come molti mormorano in quello che sembrava un brusìo sommerso durato cinquant’anni e oltre. L’intento è quello – annota lo scrittore – di spogliare il libro di tutti i suoi contenuti civili e politici (la critica sferzante del pregiudizio che animava i vertici del Pci napoletano contro gli intellettuali, la divisione in blocchi che dalla scena internazionale calava nella città , spaccandola a metà  e immiserendo il dibattito, il disprezzo che in molti ambienti, compreso il Pci, gravava sulla realtà  sociale e persino antropologica di Napoli). E di ridurlo, il libro, «a un semplice romanzetto d’amore e di sesso». Avanti, ammettilo francamente – dice all’autore un dirigente del Pci partenopeo di primissimo piano quando esce Mistero napoletano – dillo che quello è «solo un romanzo». Solo un romanzo: quasi che l’essere dentro un romanzo renda il dramma di Francesca più addomesticato, più digeribile. E invece no, insiste Rea, è proprio il romanzo ad aver dato di nuovo vita a quella donna, senza iscriverla al ruolo di personaggio. Durante un altro incontro pubblico organizzato da anziani militanti ed ex dirigenti viene imbastito un processo allo scrittore: la tua è una visione del tutto abusiva della storia di Napoli e dei comunisti napoletani negli anni Cinquanta del Novecento. Ma il dibattito è animato dal desiderio di salvare la propria faccia e non il molto di buono che quell’esperienza storica custodiva sotto la coltre dello stalinismo.
Francesca appare a Rea come l’Alcesti di Euripide che si sacrifica per sottrarre alla morte Admeto, suo marito. Ancora la letteratura che agguanta la vita e la vita che ritorna grazie alla letteratura. «Soltanto l’utopia, la capacità  di pensare l’impossibile, può dare un senso alla nostra vita miserabile», dice il fantasma di Francesca allo scrittore. E la scena come d’incanto si allarga, dal dramma della donna che perdura anche dopo la sua morte a quello della città  che vi assiste.


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