Le utopie degli anni ’60 rilette ai tempi della «deregulation»
Non c’era da dubitare che oggi la consonanza sempre più sfrontata tra arte e architettura portasse con forza alla ribalta l’esperienza di quei gruppi di utopisti, apocalittici e futuribili che tra gli anni Sessanta e Settanta anche da noi intesero, a modo loro, opporsi con l’architettura e il design sia alla società capitalista sia alla tradizione del Movimento Moderno che inutilmente tentò di riformarla. A Torino, la mostra dal titolo Radical City che Emanuele Piccardo ha curato per l’Ordine degli Architetti (fino al 30 giugno) nell’ambito del festival «Architettura in Città », appena concluso, rientra a pieno titolo nel generale interesse che l’editoria e i media nutrono per la rivalutazione di temi dell’architettura moderna più intrecciati con l’ideologia, e l’architettura radicale è tra questi.
Ora accade che ci si possa rivolgere nei confronti della produzione artistica del passato – come nel nostro caso anche il più recente – per ottenerne una legittimazione autorevole oppure per riassorbirne le innovazioni. Il recente saggio di Charles Jenckes, Radical Post-Modernism, ad esempio, dà prova di questa seconda possibilità : si assiste così a quella regressione di cui parlava Adorno e che nella società del tardo-capitalismo consiste, per quanto riguarda l’architettura, nel ridurla a puro «feticismo delle immagini» (Tomà¡s Maldonado). Occorre, però, riconoscere che è sempre un’operazione semplicistica «rivestire con panni ideologici l’architettura» anche se in questo momento è conveniente esaltare l’immaginazione più totale e al tempo stesso professarsi politicamente impegnati. Ci mise in guardia, proprio in quegli anni, Manfredo Tafuri, tanto che dichiarò di preferire, pur nel suo «anacronismo», la «sublime inutilità della pura architettura». Oggi assistiamo all’ennesima mistificazione che si cela dietro i vacui proclami di impegno ideologico di architetti e designer e non c’è da sorprendersi quando questi strumentalmente scelgono quali riferimenti del loro agire modelli e riferimenti della storia recente: un esempio è la «scoperta» di Koolhaas per il Metabolismo giapponese.
Per tornare, però, alla mostra è bene chiarire che questa raccolta di documenti intorno all’architettura radicale italiana non ha alcuna velleità di attualizzarne significati o mistificare la storia. Piuttosto questa è la conclusione del lavoro storiografico iniziato tre anni fa da Piccardo con la pubblicazione di un dvd di interviste ai protagonisti di quella stagione: da Bruno Orlandoni a Andrea Branzi, da Lucia e Dario Bartolini a Cristiano Toraldo di Francia, da Gianni Pettena a Pietro Derossi, da Ugo La Pietra a Lapo Binazzi; mentre allo scorso anno risale il numero monografico della sua rivista «Archphoto 2.0» dedicato alla Città Radicale che oggi costituisce il catalogo della mostra. Questa, suddivisa in tre sezioni – Teoria, Piazza, Discoteca – chiarisce attraverso disegni, fotografie, collage e riviste dell’epoca (assenti invece oggetti o arredi di design) la vitalità di un’esperienza estetica singolarissima prima che i loro protagonisti negli anni successivi, passassero alla realizzazione di architetture non solo più significative per dimensioni, ma di segno opposto nel riflusso senza speranza del Postmodernismo.
La ricerca di Piccardo non contempla la verifica degli esiti di quell’impegno diffuso nella realizzazione di un mondo diverso: non più oppresso da alienazioni e conflitti, tendente a trovare un diverso equilibrio con la natura e l’ambiente, nella speranza che la convivenza pacifica e globale con ogni popolo fosse imminente. Questo mondo nuovo era possibile immaginarlo nelle rappresentazioni grafiche delle megalopoli spaziali di Tange o nelle tensostrutture di Frei Otto, sotto le cupole geodetiche di Buckminster Fuller o negli agglomerati megastrutturali degli Archigram. Tuttavia come anche accade in una esposizione itinerante di analogo argomento quale quella della storica Beatriz Colomina (Clip, Stamp, Fold: The Radical Architecture of Little Magazines 196X – 197X. Actar, 2010) si cerca di far cogliere al visitatore le possibili analogie o differenze con i tempi che noi viviamo nel tentativo di misurare il grado di pensiero critico che sembra non appartenere più come allora al progetto contemporaneo, mentre la community della rete appare l’elemento sostitutivo del prodotto tipografico, oggi irrimediabilmente superato dall’omologazione dell’era digitale.
Ha scritto Franco Raggi («Domus», 22 marzo 2011) che l’architettura radicale italiana «presenta una coesione e una lucidità peculiari» rispetto alle utopie strutturali sorte nel resto del mondo, rivolgendosi «al mondo minuto e effusivo degli oggetti, dello spazio abitato, dei materiali e delle strutture formali non rigide». È forse questa incapacità di rivolgersi alla città , alle complesse ragioni che governano i suoi meccanismi la conseguenza più grave di ciò che poi è accaduto al paesaggio italiano, e non solo urbano, nei termini che conosciamo del suo consumo selvaggio. In questo senso trovarsi davanti alla rappresentazione del Monumento Continuo (1969) di Superstudio – un enorme grattacielo disteso che ingloba l’intera penisola di Manhattan dal quale emergono le rovine dei suoi storici grattacieli – fa pensare più al nostro abnorme consumo di suolo e alla cementificazione imprudente della crosta terrestre che a un habitat innovativo. La megastruttura del Disegno Unico con cui Toraldo di Francia immaginava di «attraversare deserti, coprire canyon, collegare laghi alpini o geometrizzare colline» si è avverata sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgessimo nelle forme della «città diffusa».
Analoga considerazione è possibile fare nei confronti della No Stop City (1970-71) preconizzata da Archizoom: «una struttura residenziale continua – scriveva Andrea Branzi – priva di vuoti e quindi priva di immagini architettoniche». Un luogo di sicura alienazione che poteva essere accolta in quegli anni come una provocazione o una delle molteplici manifestazioni fideistiche degli architetti per l’industria e la tecnica – se non fosse che oggi si continua a parodiarne la rappresentazione come è possibile verificare in ogni esposizione dedicata all’architettura contemporanea.
Cosa dire per ultimo della Città lineare (1969) dei fiorentini Zziggurat: un corridoio urbano che doveva connettere i quartieri periferici con il nucleo antico della città «conquistato» dopo avergli sovrapposto una megastruttura di piattaforme e gradoni dalla sagoma triangolare. Un modo disinvolto per «aiutare ad alleviare le divisioni sociali» (Giuliano Fiorenzoli), ma che ridotta a una porzione sembra avere avuto una sua naturale sperimentazione in diverse periferia della nostra penisola.
È, però, nel racconto degli happening che si svolgono negli spazi aperti (piazza) o chiusi (discoteca) della città che sta la vera novità della mostra torinese: dalle sperimentazioni visuali dei 9999, con le loro proiezioni sul ponte Vecchio, a Firenze, agli UFO, con i loro oggetti gonfiabili e di cartapesta calati all’improvviso nei luoghi pubblici, fino alle performance di Gianna Pettena e alle installazioni di Ugo La Pietra. Sono questi artisti, senza alcuna ambizione di costruire, ad avere anticipato il fenomeno della deregulation tecnologica dieci anni dopo narrata da Paul Virilio, che nell’immaterialità delle tecnologie avanzate intuì qualcosa di altrettanto fondamentale per la città dell’«estetica appariscente dei volumi assemblati alla luce del sole».
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