Le tre Riforme urgenti in questo Pandemonio Il nodo della Segreteria di Stato, la diplomazia marginale e l’assenza di un organo collegiale

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Per non rimanere prigionieri dei dettagli, bisogna allora alzare lo sguardo: e cercare di definire i tre problemi oggettivi, le tre spiegazioni possibili e le tre riforme che questo pandemonio rende più urgenti.
I problemi che affiorano riguardano formazione, selezione, la cultura della classe dirigente del cattolicesimo del secolo XXI.
La mediocre sceneggiatura delle indiscrezioni dice che esistono agitatori, agenti, organizzazioni, con libri paga, cordate di carriera e il calendario del campionato del wrestling fra movimenti. Un mondo diversificato negli obiettivi: ma accomunato dalla convinzione che la Chiesa abbia bisogno di loro al potere più che del vangelo, e permeato da una logica di violenza alla quale ci si adatta solo se addestrati da maestri competenti.
Su questa catastrofe formativa — che ha contagiato senza apparenti distinzioni clero secolare, clero regolare e clero dei movimenti — s’innesca il fatto che troppi dei peggiori hanno fatto carriera in Curia. Un fenomeno che spinge a chiedersi con ancor più angoscia perché quegli anticorpi di saggezza che devono esistere anche lì rischino di sembrare afoni e invisibili.
Anche questo squilibrio, tuttavia, sarebbe rimediabile se nell’episcopato, nelle chiese, nei movimenti, fosse stata custodita una cultura del dialogo. L’apertura sincera alla disamina delle questioni, la capacità  di trattare con serietà  i problemi difficili e di coltivare la pluralità  di sapienze, sono state sacrificate all’ossessione di una teologia che glossa il catechismo, biascica la messa in latino sbagliando gli accenti e loda enfatica l’ultima enciclica, nella certezza che questo eccesso di zelo non indurrà  al sospetto, ma sarà  considerato un merito.
Questi fatti, senza la guida di infidi insider, si possono spiegare entro tre possibili scenari. 
Il primo è che siano in presenza di una lotta di potere degna delle malebolge di Dante. Il cardinal Bertone — il confidente di una vita che, a prescindere dalle doti e dai limiti del suo governo, è lo scudo umano di Benedetto XVI — è un bersaglio non inerte, ma transitorio. Chi scatena un tale putiferio non vuole il posto del numero due. Il sommarsi di questo disegno alla lotta fra semi-potenti, nella quale entrano per scelta o per caso il segretario particolare, gli aspiranti segretari di Stato (non di certo chi segretario di Stato lo fu) fa il resto. E così fra coloro che si spacciano per gli «aiutanti» di una presunta purificazione ratzingeriana e gli alfieri di una radicalizzazione ultraconservatrice del dotto conservatorismo di Benedetto XVI, si sarebbe generata una reazione fuori controllo, con tanto di fuoco amico e azioni di copertura.
L’altra possibilità  è che questo guazzabuglio sia tutto e solo italiano in senso stretto: e cioè che proietti sulla chiesa di quel disastro politico-morale che va ben oltre gli spread e la cura Monti. Il populismo spregiudicato (che in queste ore abbiamo visto in opera perfino contro il senso dello Stato di Giorgio Napolitano), mescolato ad un rapporto non protetto con la finanza e con la destra italiana, avrebbe insomma prestato alla chiesa metodi e brutalità  che solo noi italiani sappiamo leggere sulla filigrana dell’elezione del sindaco di Roma o degli equilibri di qualche holding.
La terza possibilità  è che un marasma apparentemente pretesco faccia parte del gioco della grande politica. Se le agenzie che si fanno chiamare «mercato», hanno puntato sul fatto che i tedeschi (la cancelliera tedesca, il Papa tedesco) non sentiranno pesare sulla loro coscienza l’incubo di riaprire, con la fine dell’euro e dell’Europa, la porta alla guerra per la terza volta in cent’anni — allora tenere occupata la chiesa su schifezze minori, avrebbe un senso maggiore. 
Le tre riforme istituzionali — che sono sempre state la pinza con la quale la Chiesa di Roma afferra le questioni spirituali – riguardano la Curia, la diplomazia e l’episcopato.
Da oltre un secolo la Segreteria di Stato non funziona e il sogno montiniano di dare al Papa un primo ministro è fallito. Se il Papa mette alla Seconda Loggia un grande, ne subisce l’ombra: e può arrivare a lasciar vacante il posto come ha fatto Pio XII. Se il Papa sceglie un uomo più defilato, la lamentela è forte e il disordine pure. Il nodo, dunque va affrontato in un quadro ecclesiologico d’insieme, come quello proposto da canonisti del rango di Eugenio Corecco e Francesco M. Pompedda fra gli anni Ottanta e Novanta.
La seconda riforma riguarda la diplomazia pontificia: lo stuolo dei nunzi papali è il primo a patire una marginalità  che si riflette nel silenzio ecclesiale sui grandi nodi geopolitici del presente, primi fra tutti quello europeo e quello cinese. Ma 150 diplomatici non sono gestibili. Serve dunque un piccolissimo numero di supernunziature continentali, affidate a diplomatici porporati, ascoltati regolarmente a Roma e capaci di far pesare sui grandi tavoli globali la voce dell’unica famiglia al mondo dove tutti contano uguale.
La terza riforma è una parola dimenticata del Vaticano II: collegialità . Il Papa — lo si è visto a Milano — ha bisogno di confrontarsi con chi, per la consacrazione episcopale, riceve un potere sulla chiesa universale: di questa comunione il vicario di Pietro si avvantaggia sul piano umano e teologico, senza dar ombra alle sue prerogative. Un organo collegiale permanente lo si attende dal 1964 e non è il sinodo dei vescovi convocato con funzioni consultive: tardare a chiedersi come dar corso a questo aspetto della comunione vuol dire far diventare il papa un bersaglio per chi «lo aiuta» e rendere la chiesa lo zimbello dei media.
Che è esattamente quello che sta accadendo.


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