LE TANTE STORIE DI PICCOLE RIVOLUZIONI

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«Questo sistema è stabile come un relitto arenato che la corrente sta per portarsi via». L’immagine è di Federico Fubini, nel suo ultimo saggio, Noi siamo la rivoluzione (Mondadori). Sette storie di uomini e donne – dall’Arabia Saudita alla Thailandia, dall’India al Bhutan, dall’Etiopia alla Tunisia e a Catanzaro – che hanno scosso il loro tempo, cominciando a pensare con la loro testa. Rifiutando la regola che Keynes aveva indicato come simbolica del funzionamento dei mercati finanziari, quando «consacriamo le nostre intelligenze ad anticipare ciò che l’opinione media si aspetta che l’opinione media sia». Il “concorso di bellezza” che ci impone il divieto di pensare e ci vincola alla presunta medietà , ossia alla nostra idea di ciò che i più credono buono e giusto. Un rattrappimento della mente e dello spirito, che in tempi di crisi contribuisce ad abbassare l’orizzonte, a farci perdere di vista ogni speranza, a bandirla come utopia.
È l’aspetto perverso di quel fenomeno socio-cultural-economico che chiamia-
mo globalizzazione, senza sapere bene che cosa sia. Ma che, a leggere tra le righe di Fubini, è anche uno stato d’animo. Quello che segna chi resta prigioniero del relitto, credendo o forse sperando che la marea non s’alzerà  mai.
La penna del giornalista – Fubini scrive per il Corriere della Sera, soprattutto di economia – coglie meglio di molte analisi scientifiche il senso di una sospensione che può durare una vita o sciogliersi in un’inattesa cataratta. L’immobilità  come apparenza, pronta a volgersi in rivoluzione o in puro caos. Quando l’autore racconta dell’ambiguità  del sistema saudita, nel quale nessuno crede, a cominciare da chi lo regge, sembra di veder riprodotta nelle sabbie arabiche il gelo della stagnazione brezneviana, che pure pareva eterna.
Un conformismo da rendita, in via di lento esaurimento, che produce i germi destinati a distruggerlo. Fubini dà  voce a questa parabola narrando di alcune giovani donne che si scoprono atee ma non hanno il coraggio di raccontarlo né a mamma né alle amiche. Una di loro, Nora, azzera la speranza: «È meglio che rimanga tutto com’è: altrimenti, alla fine, vincerebbero i talebani».
Non tutti i musulmani la pensano così. Nella cittadina tunisina di Sidi Bouzid Fubini cerca di ricomporre le tessere del mosaico del contagio rivoluzionario scaturito dal suicidio di un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi. Di qui è partita il 17 dicembre 2010 la cosiddetta (da noi) “primavera araba”. Facendoci scoprire una gioventù che – forse solo per un attimo, forse per sempre – ha perso la paura di un potere vessatorio e crudele. Colpisce, nella ricostruzione di una vicenda che resterà  nei libri di storia, la casuale successione degli eventi. Ma quando il caso provoca una rivoluzione, vuol dire che il legno era lì, pronto a essere non solo metaforicamente incendiato. E colpisce anche come di Bouazizi, a Sidi Bouzid, nessuno sappia o voglia ricordare troppo. I simboli si dimenticano in fretta, specie se a produrli sono i media altrui. L’ultima tappa del viaggio è Catanzaro. Cuore spento di una regione senza speranza, che si trasforma in una sorta di piccola Bangalore nostrana, con migliaia di giovani prigionieri dei call center. Quell’universo reclusivo narrato da Michela Murgia nel suo Il mondo deve sapere, dove oggi, assicura Fubini, «si guadagnano fra i 300 e i 600 euro al mese, ma questo è tutto il presente e il futuro visibile». E nel quale gioca la sua scommessa civile ed elettorale il men che trentenne Salvatore Scalzo. Reduce dall’agiata diaspora brussellese, Scalzo scommette che la politica, quella vera, non è morta.
Con il sobrio acume che lo distingue, Fubini informa che, malgrado tutto, la storia continua. Non solo metaforicamente. Per la prima volta in Italia, il libro cartaceo ha un fratello ebook – La Cina siamo noi – uno scavo nel profondo Sud alla ricerca del senso che non ha, ma vorrebbe conquistarsi a costi cinesi.


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