Le parole del dizionario sono come conchiglie: sembrano vuote ma dentro ci si può sentire il mare
Il libro dev’essere vento e aprire le tende», dice un verso di Nazim Hikmet. Parto da questa frase per una conversazione sull’attività della scrittura letteraria. Non posso chiamarla lavoro nel mio caso. Quello è stato eseguito dal corpoche ha venduto il suo servizio in cambio di salario. Ho del verbo lavorare una notizia ristretta e manuale. Non le ho lasciate in pace, le mie mani, non le ho tenute in tasca o nel fodero dei guanti. Quando le uso per tenere aperto un quaderno sopra le ginocchia e scriverci qualcosa, stanno riposando. Per me scrivere è tempo festivo, opposto al verbo lavorare.
Il 1900 è statoil secolo degli operai e del riscatto del lavoro manuale. Scaduto quel tempo, dal riscatto si torna al ricatto del lavoro manuale: o si piega servile, senza dignità e diritti o viene espulso.
Chi scrive oggi ha perfino smesso di impugnare una penna, invece sfiora con i polpastrelli una tastiera. Spolvera anziché imprimere. Lo schermetto illuminato risponde da soldatino, con righe impettite, ben allineate. Lo scrittore di tastiera agisce da sergente, quello su quaderno è ancora uno scolaro. Dylan Thomas conclude una sua pagina con il verso: «Le mani non versano lacrime» (Hands have no tears to flow). Non possono, è vero, ma quelle giuste sono capaci di asciugarle.
Il 1900 si è dedicato alle scritture brevi. Le sue esperienze più numerose sono state le emigrazioni, le prigionie, le guerre di sterminio. Perciò il necessario della scrittura si è dovuto concentrarein poco spazio. Non c’era tempo né inchiostro e così il 1900 si è espresso meglio con le lettere e con le poesie. Da quando faccio l’attività di scrittore una gran parte del mio scrivere si è sparpagliato in lettere. Non ne conservo copia né rileggo prima di spedire, non devo correggere. Le lettere appartengono a chi le riceve.
Qui di seguito rispondo alla richiesta di una persona giovane che mi chiede notizie circa la sua spinta a scrivere per il desiderio di vedere in stampa le sue pagine. Rispondo con il tu che si deve a chi sta alla stessa tavola, una sera di pochi clienti all’osteria.
Non spedire le tue pagine a uno scrittore. Non si mandano scarpe fatte da sé ai calzolai, non si spedisce al pasticciere un dolce cotto in casa perché lo assaggi. Darsi per compito la scrittura non passa per la sponda di un altro scrittore. Serve una casa editrice: se la tua spedizione viene respinta, ignorata, perduta, non ricorrere alla lusinga di chi ti offre di pubblicarla ma a tue vive spese. Non farà ufficio stampa né la distribuzione promessa e nel giro di un anno ti chiederà di acquistare l’invenduto, altrimenti dovrà mandarlo al macero. Meglio se ti procuri una tipografia o se stampi da solo, oggi si può. Ne tiri un centinaio di copie e le distribuisci a chi ti vorrà leggere. Forse trovi il libraio che tiene per un po’ il tuo libro in vetrina, se gli vai a genio.
Darsi alla scrittura non è un percorso tratteggiato da puntini: riuniscili con la matita e apparirà l’immagine. Come in altre faccende nostre, si tratta di accettare lo zigzag, la divagazione, la permanenza nel deserto. Se ti metti a seguire le quarantadue tappe di Israele nel Sinai, scopri lo sbandare insistito di chi ha perso la via di casa. Gli Ebrei avevano fede in un’assistenza, confermata dal rifornimento della manna. Uno che invece ficca il suo bagaglio nel cartoccio della scrittura, deve incamminarsi senza nessun segnale di assistenza. Più che di solitudine, dev’essere capace di isolamento, una disciplina di silenzio pure dentro una folla. Chi scrive ha davanti a sé la modica vastità di un vuoto. Non lo deve riempire, lo deve abitare.
Non avere capomastri. Puoi ammirare un’altra scrittura, ma poi devi scrollartela di dosso. Leggi le opere degli scrittori da lettore e non da collega dell’autore. Altrimenti può succederti quello che racconta Robert Walser dopo la sua lettura di Dickens: la disperazione di mettersi a scrivere dopo di lui. Si dispera perché ha letto Dickens da scrittore, sapendo di non poter mai scrivere quelle pagine come ha fatto lui. È logico, Dickens sta nel campo della sua storia e chi ci entra deve farlo da visitatore, è un ospite non un socio d’impresa. Leggi un camion di libri ma da lettore, senza pensiero di paragone tra quello che sfogli e le tue pagine.
Il bravo allievo di un hasìd, titolo di sapienti ebrei dell’Europa orientale, veniva allontanato dal suo maestro che lo spediva a compiere il suo «oprichten goles», l’esilio volontario. Nel vagabondaggio lontano da biblioteche e scuole, nel rischio di cedere e smarrirsi, avviene il perfezionamento o la disfatta. Scrivere è un modesto sbaraglio da accettare senza condizioni. Per mare non ci stanno taverne.
Impara una seconda lingua. Ne ho studiate alcune per inseguire i poeti dentro la loro tana. Mi spingeva l’ammirazione, un sentimento intransitivo. Si ammira senza il minimo pensiero di essere come, stabilire anche un minimo comparativo di minoranza tra la persona o l’opera ammirata e me stesso. L’ammirazione è opposta all’invidia, che è transitiva, ha desiderio di essere come, essere al posto di. L’invidia è un errore ottico, ignora la distanza, fa credere di trovarsi a portata di mano.
Ho ammirato dei poeti, li ho seguiti nelle loro lingue e mi sono applicato a tradurre qualche loro verso. Ho forzato il mio vocabolario nella tensione di raggiungere la precisione. Anche se già tradotti e meglio, mi sono accanito in una mia fedeltà all’originale. Questa pratica dell’ammirazione ha migliorato la mia lingua. Non lo sapevo prima, lo riconosco adesso e perciò raccomando l’esperienza della traduzione.
Il poeta tedesco Heinrich Heine racconta un suo episodio di giovane scolaro della lingua francese. Il professore gli chiede come si traduce «Glaube», fede. Lui non ricorda, ci pensa e infine al posto di «Foi», risponde «Credit», credito. La classe scoppia a ridere, il maestro lo rimprovera. Da quel momento, conclude Heine, si guastò irreparabilmente il suo rapporto con la religione. A me il suo errore spiega qualcosa in più. La fede, che ho visto in quelli che l’abitano, è una continua richiesta alla divinità di essere nella sua vita quotidiana. Il credente, in obbedienza al participio presente del verbo, è chi continua a credere, rinnovando il suo atto di fede. La fede è così una ribadita apertura di credito nei confronti della divinità . L’errore di Heine mi ha aiutato a saperlo. Nelle traduzioni l’urto e l’accostamento tra le parole di due lingue aumentano la loro energia.
Marcos Ana ha passato ventidue anni della sua vita in prigione, al tempo della dittatura di Franco, dopo la guerra civile spagnola. Torturato, condannato a morte, pena poi commutata in carcere a vita, alla morte del dittatore è uscito dalle celle. In prigione ha imparato a scrivere versi. E’ stato uno degli innumerevoli poeti del 1900 che hanno vissuto dietro le sbarre. Riabituarsi all’aria aperta è stato difficile, specialmente guardare l’orizzonte. Lo spazio spalancato davanti gli procurava vomito e vertigini.
Da uomo libero ha incontrato il celebre poeta spagnolo, premio Nobel, Miguel Angel Asturias. Hanno parlato di poesia e Marcos Ana riferisce un passaggio della loro conversazione. Asturias gli disse che quando in un verso gli veniva un aggettivo troppo semplice, lui cercava nel vocabolario quello più prezioso. Marcos rispose che lui faceva il contrario. Quando gli sembrava che la sua parola non fosse la più semplice, cercava nel vocabolario il termine più corrente.
Auguro a te di non sfogliare il dizionario per nessuna delle due ragioni. Aprilo invece per la sua bellezza, per il deposito di storie contenute in ogni vocabolo. Se ne leggi una pagina vedrai spuntare pensieri, storie, ricordi. Le parole di un dizionario sono conchiglie, sembrano vuote ma dentro cipuoi sentire il mare. Non frugare quel solenne elenco come il cercatore dentro una miniera, per estrarne una cosa sola, ma come uno che percorre un campo e legge il brulichìo delle specie viventi.
Considera la tua pagina una sequenza di passi in montagna, dove è rischioso a morte il margine di errore. Le sillabe sono passi su piccoli appoggi, devi posarci il peso della frase, della voce. Usa la virgola, il punto, l’accapo. Il 1800 ha usato molto il punto esclamativo, il 1900 poco, io faccio senza, ma non è una regola, solo un’astinenza. Mi devono bastare le parole scritte a suscitare il punto esclamativo in chi le sta leggendo. Altrimenti è un effetto artificiale, come il cartello «applausi» in una trasmissione televisiva.
Fai che la tua scrittura risenta il callo del dialetto di origine. L’Italiano più che dal latino proviene da un’Amazzonia di dialetti, un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L’italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell’accento irripetibile da chi non ci è nato.
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