by Sergio Segio | 13 Giugno 2012 7:39
Essa svolgerà un ruolo decisivo nella assegnazione delle frequenze per le trasmissioni televisive: un ruolo determinante per ciò che vedremo, ascolteremo e sapremo nei prossimi anni. La gravità degli attuali problemi economici, che monopolizzano le attenzioni e preoccupazioni, spinge a vedere solo il profilo economico di questioni che invece riguardano anche altre ed importanti esigenze. E’ significativo che le critiche largamente portate alle recenti nomine dei componenti della Autorità finiscano spesso con il riflettersi solo sulle previsioni di comportamento di questo o quel commissario nelle decisioni che hanno conseguenze economiche sui vari operatori televisivi, attuali o potenziali.
Nessuno, specie di questi tempi, può sottovalutare la portata economica delle decisioni da prendere. Ma essa non deve esaurire l’ attenzione di chi le prende, né la vigilanza della pubblica opinione. In un suo intervento a «Otto e mezzo» de La7, l’altro giorno il segretario del Pd ha menzionato la cacciata «politica» di Santoro dalla Rai come un esempio di inettitudine «economica» da parte di una impresa, che dovrebbe curare i suoi interessi. Difficile nascondere lo stupore: non un cenno al profilo che riguarda la qualità dell’informazione fornita dalla Rai, responsabile del servizio pubblico. Come se, al contrario, non ci fosse stato nulla da dire nel caso in cui il programma cancellato non avesse avuto grande audience. Evidentemente l’unica logica è ormai quella dei costi/ricavi economici.
La informazione, completa e pluralistica è un bene pubblico, condizione fondamentale di una società idonea a far vivere il sistema democratico. Ad essa deve tendere l’opera del Parlamento, del Governo e della Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni. In linea con ciò che prescrive la Costituzione, è ora giunta a ricordarcelo una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con essa l’Italia è stata riconosciuta in violazione della libertà di espressione e informazione.
Da tempo la situazione italiana è ritenuta allarmante in tutte le sedi europee. Nel 2003 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione, rilevando che il livello di concentrazione del mercato televisivo italiano era il più alto in Europa ed era caratterizzato da un duopolio fra RAI e Mediaset. All’epoca poi entrambe erano sotto l’influenza del presidente del Consiglio. Il Parlamento europeo ha anche notato che il sistema audiovisivo italiano continuava ad operare fuori di un quadro legale, in violazione di quanto stabilito nel 1994 e poi ancora nel 2002 dalla Corte costituzionale.
Il caso italiano deciso dalla Corte europea è straordinario innanzitutto nel suo svolgimento. I governi italiani succedutisi nel tempo a partire dal 1999 sono riusciti a farsi condannare dal Consiglio di Stato, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e ora infine dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E le sentenze in materia della Corte costituzionale sono andate nello stesso senso, ma sono rimaste ignorate da Parlamento e Governo. Tutti i giudici in terra si sono pronunciati: contro il governo, contro la legge italiana e contro l’applicazione fattane che «aveva favorito gli operatori esistenti a danno dei nuovi, anche se questi erano titolari di concessione, ma si trovavano nella impossibilità di trasmettere per la mancata assegnazione di radiofrequenze». Si trattava della società Centro europa 7, che nel 1999 aveva ottenuto la concessione per l’installazione di una rete televisiva con diritto a tre radiofrequenze atte a coprire l’80% del territorio nazionale. L’attribuzione di quelle frequenze doveva essere fatta secondo le prescrizioni di un «piano di assegnazione», che però fu attuato solo nel 2008. Nel frattempo, mentre si preparava il passaggio alle trasmissioni numeriche, una serie di norme transitorie aveva permesso agli operatori già attivi di continuare a trasmettere occupando le relative frequenze. L’impedimento valeva, infatti, per i nuovi operatori, cui le frequenze non venivano assegnate.
La Corte europea – nella stessa linea seguita da tutti i giudici che sono intervenuti nella vicenda – ha addebitato all’Italia di non avere adottato una legislazione e una azione amministrativa idonee a «garantire un effettivo pluralismo nei media». Non basta infatti l’esistenza di più canali e la possibilità teorica di accedere al mercato audiovisivo. Occorre invece una possibilità effettiva, in modo da «assicurare nel contenuto dei programmi, considerato nel suo insieme, una diversità che rifletta quanto più possibile la varietà delle correnti di opinioni che attraversano la società ». Poiché la democrazia si fonda sulla libertà di espressione e richiede il massimo pluralismo delle voci. I media audiovisivi, poi, svolgono un ruolo particolarmente importante, perché la trasmissione di suono e immagine produce un effetto più immediato e potente del messaggio scritto. «Se un gruppo economico o politico potente fosse autorizzato a dominare il mercato dei media audiovisivi, che hanno il potere di far passare messaggi immediati, una simile posizione dominante sarebbe lesiva della libertà di comunicare e di ricevere informazioni e condurrebbe quel gruppo ad esercitare una pressione che restringerebbe la libertà editoriale, mettendo in crisi il ruolo fondamentale della libertà di espressione nella società democratica, in particolare quando si tratti di informazioni e idee di interesse generale, che, d’altra parte, il pubblico ha diritto di conoscere».
La considerazione degli interessi economici, se isolata e insensibile alle esigenze dei doveri e diritti fondamentali, potrebbe spingere ad assegnare tutte le frequenze ad un solo operatore, se solo ce ne fosse uno abbastanza ricco da offrire un prezzo più alto di tutti gli altri. Ma lo Stato deve assicurare il massimo grado possibile di pluralismo nella informazione, anche pagando qualche necessario prezzo economico, specialmente quando «il sistema nazionale è caratterizzato da un duopolio». Ciò vale naturalmente quando si tratti di mettere una pluralità di operatori in condizioni di trasmettere. Ma vale altrettanto quando si considera il «servizio pubblico» cui è destinata la Rai e che essa deve essere messa in grado di svolgere al riparo da pressioni, censure, allettamenti politici o altrimenti forti.
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