Le doppie regole del gioco afghano
A più di dieci anni dall’inizio dell’intervento militare voluto dagli Stati Uniti, sull’Afghanistan è tempo di tirare le somme. Lo ha fatto la «comunità internazionale», che a Chicago, nel corso del vertice della Nato del 21-22 maggio scorsi, ha ribadito la volontà di ritirare le truppe entro la fine del 2014. Lo fanno gli afghani, sempre più disillusi e preoccupati, per una situazione che a dispetto delle promesse fatte continua a essere fortemente instabile. E lo fanno anche alcuni italiani, coinvolti a vario titolo nel nuovo «grande gioco» in Asia centrale: da due anni a questa parte l’editoria italiana continua infatti a sfornare libri sull’Afghanistan.
Legioni straniere
A quanto pare, un ciclo si è chiuso, quello della retorica che accompagna ogni operazione militare, e un altro si è aperto, quello della riflessione. I proclami lanciati dalle tribune politiche, dalle sedi delle ambasciate o dai quartieri generali delle forze Isaf-Nato evidentemente hanno perso la loro forza persuasiva; la realtà è troppo lontana dagli ideali sbandierati nelle conferenze stampa, troppo evidente il contrasto tra le promesse fatte nel 2001 e i risultati attuali. Su questo scarto si concentrano molti dei libri sull’Afghanistan usciti di recente in Italia, accomunati dalla tendenza a privilegiare l’aspetto diaristico, la memoria personale, per raccontare le contraddizioni di un paese in cui, «nel dopo 11 settembre, si è asserragliata una formidabile legione stranera».
A questa legione straniera, al modo in cui ha condotto le sue attività militari e di ricostruzione è dedicato Libero a Kabul (Editori Internazionali Riuniti, pp. 320, euro 19,50), di Fernando Gentilini. Già consigliere diplomatico aggiunto per il presidente del Consiglio Romano Prodi e Alto rappresentante civile della Nato a Kabul, Gentilini è un diplomatico di professione: inutile aspettarsi retroscena clamorosi e rivelazioni compromettenti sugli attriti tra questo o quell’ambasciatore. Ci si può aspettare invece uno sguardo molto più onesto ed esplicito di quanto il ruolo ricoperto lascerebbe supporre.
Gentilini viene mandato a Kabul nel maggio del 2008 con due compiti: «far convivere i militari dell’Isaf con i civili delle Nazioni unite e dell’Unione europea» e «trasferire progressivamente agli afghani la gestione dei progetti di ricostruzione». Sul terreno, la battaglia continua, le forze internazionali incassano i colpi dei movimenti anti-governativi, la mappa afghana è disegnata a macchia di leopardo: alcune aree sono sotto tutela del governo Karzai e degli «alleati» occidentali, molte altre rimangono sotto influenza talebana. Anche gli strateghi del Pentagono, seppur riluttanti, cominciano ad ammettere che la soluzione militare, da sola, non basta.
I danni dello squilibrio
Nessuno dubita più che «si debba puntare sulla politica e sugli aiuti economici invece che esclusivamente sulle armi». Si afferma il «comprehensive approach: una ricetta per la risoluzione del conflitto basata su politica, diplomazia, aiuti economici e ricostruzione piuttosto che sull’uso esclusivo della forza». Ormai, però, è troppo tardi. Lo squilibrio tra «le componenti civile e militare dello sforzo internazionale» ha già fatto danni: la popolazione non si fida; la maggior parte dei diplomatici occidentali è abituata a vivere «barricata nei propri comprensori fortificati e non gira per la città se non proprio necessario»; i donatori internazionali procedono «ognuno per conto suo senza nessuno in grado di assicurare un minimo di coordinamento»; la commistione tra civili e militari, con l’imposizione del modello dei Prt (i Provincial reconstruction team), ha alterato «le finalità dello sviluppo», puntando a obiettivi tattici (la conquista dei ‘cuori e delle menti’ degli afghani) anziché strategici.
Quando termina il suo mandato, nel gennaio 2010, Gentilini ha imparato «che le guerre postmoderne non si vincono e non si perdono più», e lascia dietro di sé «una comunità internazionale più brava nel mobilitare risorse militari che civili». E incapace di ammettere un fallimento.
Di un «inesorabile fallimento» parla invece Pietro De Carli in Afghanistan nella tempesta. La farsa della ricostruzione (Albatros Il filo, pp. 459, euro 15,50). L’autore, esperto di cooperazione per il ministero degli Esteri, ha coordinato programmi di emergenza in Afghanistan, dove ha vissuto per quattro anni. Un tempo più che sufficiente per rendersi conto delle contraddizioni di «una strategia di rinascita democratica e di ricostruzione economica e sociale imperniata pressoché esclusivamente sulla prova di forza di una spedizione militare». Da qui, sarebbero derivati tutta una serie di sbagli ed equivoci, come quello «della vocazione umanitaria rivendicata dai contingenti militari stranieri che annullava ogni distinzione con le organizzazione precipuamente umanitarie».
Ancora una volta, la critica è rivolta alle attività dei Provincial reconstruction team, che hanno incarnato il modello dell’integrazione tra civili e militari. Con risultati catastrofici, perché «la solidarietà mal si concilia con l’esercizio della forza», e perché «ammantare come umanitaria una missione militare» non può che produrre danni, facendo emergere inevitabilmente la logica, tutta politica, di cui è frutto: «la logica che interpretava i progetti di cooperazione alla stregua di una tattica ausiliaria all’obiettivo primario della presenza militare», «una sorta di ammortizzatore sociale per minimizzare l’ostilità nei confronti dei contingenti militari». Quando torna in Italia, anche De Carli lascia dietro di sé una comunità internazionale incapace di ammettere i suoi errori e di dare seguito alle promesse di «ricostruzione».
Critiche all’interventismo
Quelle di Gentilini e di De Carli sono posizioni simili, condivisibili, ormai piuttosto comuni tra quanti si occupano di Afghanistan, maturate dopo aver conosciuto in prima persona le incoerenze della missione in Afghanistan. Eppure, rimangono parziali e limitate, proprio perché puntano soltanto all’incoerenza, alla contraddizione tra mezzi e fini: sono i metodi a essere criticati (la commistione tra civili e militari, lo squilibrio delle risorse mobilitate nei due settori, la scarsa attenzione alla ricostruzione del tessuto economico), non il fine (la missione militare in Afghanistan, con tutti i suoi corollari).
Molto più articolata e consapevole, sotto questo punto di vista, la posizione di Antonio De Lauri, dottore di ricerca in Scienze umane e antropologia della contemporaneità e ricercatore a Parigi e Nanterre. Già curatore nel 2005 del volume Poesie afghane contemporanee (L’Harmattan Italia), De Lauri ha appena pubblicato Afghanistan. Ricostruzione, ingiustizia, diritti umani (Mondadori università , pp. 354, euro 24; sarà presentato oggi alle 18 a Torino, alla Libreria Comunardi). Sin dall’introduzione, l’autore rivendica «una opportuna distanza dal ‘credo umanitario’», rendendo esplicita la sua «posizione critica nei confronti di un certo tipo di politica interventista». Questa distanza si traduce in due movimenti: sotto il profilo del metodo, nella piena consapevolezza della «tensione continua tra posizionamento politico, etica della ricerca e conoscenza critica»; sotto il profilo dei contenuti, nella ricerca del «fondamento ideologico e politico su cui poggia il processo di ricostruzione giuridica e giudiziaria innescato nel 2001», nella riflessione «sulle logiche che governano i movimenti di circolazione e attuazione dei modelli ispirati alla rule of law globale».
Un intreccio di leggi
Il punto di vista è chiaro: se in Afghanistan nel processo di ricostruzione «la retorica governativa e internazionale presenta l’esportazione della rule of law quale prerogativa allo ‘sviluppo’ del paese», De Lauri contesta la stessa concezione universalistica «che intrappola ogni idea di processo trasformativo nel linguaggio egemonico della modernizzazione», relegando la realtà afghana a uno stato di pre-modernità immobile. Una volta abbandonato il linguaggio di tipo evoluzionista e l’«’orientalismo umanitario’ per cui una pace duratura può derivare solamente da un processo di modernizzazione politica veicolato dai paesi occidentali», ecco che la rule of law mostra ciò che nascondeva: un globalismo giuridico che si fa «veicolo di legittimazione di logiche di sopraffazione che rispondono a interessi geopolitici e privati».
La critica rivolta dall’autore alla declinazione normativa dell’interventismo umanitario è ben articolata. A volte, però, perfino troppo ribadita: a farne le spese, nell’economia del libro, è un’altra delle coordinate del lavoro etnografico di De Lauri, quella dedicata all’analisi dell’intreccio di sistemi normativi nel panorama giuridico afghano, segnato dalla compenetrazione tra legge statale, diritto internazionale, consuetudini e sharia.
Quello del pluralismo giuridico inaccessibile (per usare la formula dell’autore), è un tema di estremo interesse: in Afghanistan la coesistenza di più sistemi di riferimento di ordine normativo produce una negoziazione continua, processi di appropriazione e traduzione o, meglio ancora, di resistenza, conflitto, ibridazione, assorbimento. A incarnarli, sono soprattutto i giudici, che danno luogo a una «pratica giudiziaria di contaminazione che risente tanto delle influenze esterne quanto delle pratiche e delle forme di autorità consuetudinarie». Esemplari, a questo proposito, i racconti dei venti casi giudiziari seguiti da De Lauri nelle corti di Kabul, lì dove le tendenze transazionali del globalismo giuridico si traducono nelle contingenze micro-sociali e nelle storie di vita degli afghani.
Al guinzaglio di un demone
Storie ordinarie e attuali, come quelle raccolte a Kabul da De Lauri, o storie eccezionali e ormai leggendarie, come quelle raccontate da Ettore Mo in Diario dall’Afghanistan (Transeuropa, pp. 112, euro 8,50, con fotografie di Luigi Baldelli), dove il più noto tra gli inviati di guerra italiani torna a spiegare perché nel 1979 decise, «come Melville, di inseguire e dare la caccia alla Balena Bianca, che in quel momento aveva i connotati aggressivi dell’Afghanistan». Chi ha dimestichezza con il lavoro di Ettore Mo riconoscerà facilmente i personaggi, i luoghi e le situazioni già descritti altrove: la prima «incursione» in Afghanistan; l’incontro con i signori della guerra come Hekmatyar, «quasi un personaggio shakespeariano, cupo, frenetico, tenuto al guinzaglio da un demone»; la morte del giornalista della Bbc Mirwaiz Jalil; il ritratto del leone del Panshir, Ahmad Shah Massud (di cui proprio Mo ha contribuito a diffondere una biografia fin troppo agiografica); l’avvento dei Talebani. Ed è questo l’aspetto sorprendente di Diario dall’Afghanistan: Ettore Mo torna a raccontare cose già raccontate, storie forse già lette dai suoi lettori. Eppure riesce a incantare come se quelle storie fossero nuove, ci costringe a seguirlo nei suoi viaggi, a lasciarci trasportare da una prosa narrativa a cui ancora nessuno è riuscito ad avvicinarsi.
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