Le denunce sociali di un esteta danese
Ricorre quest’anno il centesimo anniversario della morte di Herman Bang (1857-1912), lo scrittore che, insieme a Jens Peter Jacobsen e Henrik Pontoppidan, ha dato un potente colpo di coda alla letteratura danese moderna. Mostro sacro in patria, misconosciuto in Italia, dove, nelle rare occasioni in cui la scena culturale si ricorda di lui, chi ne parla non manca mai di contrassegnarlo con l’aggettivo «decadente». Calzante, ma solo in parte: se Bang fosse davvero il malinconico pessimista che vede soltanto crepuscolo e rovina, che motivo avrebbe di metter mano alla penna e additare ai danesi le pecche della loro società ? È questo, infatti, il nocciolo della sua attività di giornalista e romanziere: la sensibilità ai problemi sociali del suo tempo.
I suoi articoli – arriva a scriverne anche cinque o sei al giorno – parlano della misera condizione dei poveri e dei senzatetto di Copenaghen, o della vita cui sono costrette le donne non sposate, ma senza mai un’invettiva, mai un’accusa violenta. Lo stile è pacato, garbato, e conquista. Emblematico è il romanzo Stuk (1887), dove la china sulla quale si è avviata la capitale danese è simboleggiata dai magnifici stucchi che decorano la facciata di un teatro, che però servono soltanto a rivestire l’instabilità , la fragilità di ciò che avviene all’interno.
Ecco chi è davvero Herman Bang: un raffinatissimo esteta, cosmopolita e instancabile nel lavoro, modesto, educato, che crede fermamente nella possibilità di arrestare la decadenza, e che vuole contribuire alla ricostruzione, al progresso.
Ma le novità , si sa, spaventano. E così arrivano anche gli attacchi degli altri intellettuali. Il critico Georg Brandes (1842-1927), dalle pagine del «Morgenbladet» dell’1 agosto 1883, scrive: «Egli ha un punto morto nella testa, perciò non è in grado di pensare (…) Il suo è un intelletto mediocre, da donna. Non c’è alcun andamento maschile nei suoi pensieri». E con questo, oltre ad esprimere un’opinione poco lusinghiera sul gentil sesso in generale, Brandes compie una mossa sleale: allude, nemmeno troppo implicitamente, all’omosessualità di Bang.
L’orientamento affettivo è, peraltro, una delle ragioni della visione decadente di Herman Bang. Convinto di essere l’ultimo discendente di una delle famiglie più antiche di Danimarca, quella dei Hvide, considera se stesso come il prodotto di una degenerazione, un’anomalia, una pecora nera. E «nero» lo è davvero, in un certo senso: scuro di capelli e d’incarnato. Anzi, chissà che il disprezzo che August Strindberg nutriva per lui non fosse dettato anche dall’aspetto fisico (si pensi alla caratterizzazione lombrosiana dello «zingaro»» in Ciandala). Il contrasto è ancora più evidente se si pensa che il cognome Hvide, in danese, significa «bianco».
Non è un caso se un’importante opera di Herman Bang, d’ispirazione autobiografica, porta il titolo Det hvide hus («La casa bianca», che però è anche la casa dei Hvide), recupero di un paradiso perduto, di un’infanzia durante la quale non erano ancora emerse le «tare» di famiglia. Ossia, quando le malattie – pazzia, tifo, tisi – non avevano ancora decimato i Bang. La «casa bianca» si trova sull’isola di Als, caduta in mano alle truppe prussiane nella seconda guerra dello Schleswig, nel 1864, e sempre rimpianta da Herman.
È proprio con La casa bianca e il suo contraltare La casa grigia che Iperborea, quest’anno, saluta il grande scrittore danese. Già pubblicati dall’editore Marietti nel 1986 e da tempo irreperibili, finalmente i due romanzi ritrovano posto nelle nostre librerie, insieme a una nuova edizione de I quattro diavoli e a L’ultimo viaggio di un poeta, che contiene anche lo splendido, delicatissimo ritratto che Klaus Mann dedica a Bang: Viaggio al termine della notte.
L’affinità tra i due scrittori è subito evidente: la stessa infelicità , e lo stesso orientamento sessuale, al quale ognuno dei due dedica anche un saggio. Herman Bang scrive infatti, in collaborazione con il medico tedesco Max Wasbutzki, lo studio Gedanken zum Sexualità¤tsproblem (che però sarà pubblicato postumo, nel 1922), mentre Klaus Mann è autore di Homosexualità¤t und Faschismus; entrambi dunque pionieri della teoria queer. All’incirca a metà fra i due scritti si colloca il Corydon di André Gide.
Le feroci critiche rivolte all’omosessualità di Herman Bang e al suo nuovo modo di concepire la letteratura, tuttavia, non intaccano l’apprezzamento da parte del pubblico. Basti pensare al caso del romanzo Haablà¸se Slà¦gter («Generazioni senza speranza»), pubblicato nel 1880 e finito addirittura sui banchi del tribunale, con un’accusa di oscenità . Non vi si trova alcuna sconcezza, naturalmente, ma uno dei personaggi intreccia una relazione amorosa con una donna più anziana, cosa che all’epoca era ritenuta inaccettabile. Bang viene condannato al pagamento di una multa e alla confisca di tutte le copie del libro, ma… non ne è rimasta nemmeno una. Sono state vendute tutte quante.
Purtroppo, la vita non sarà generosa con il danesino piccolo, brutto e nero. Continuerà ad annaspare fra i problemi economici, il dileggio da parte dei benpensanti, le delusioni amorose e le sempre più frequenti visite della polizia, che lo considera un propagatore di depravazione. Gli basta indossare un braccialetto per essere descritto come «carico di gioielli»; infila un paio di guanti, e gli si rimprovera di essersi vestito da donna. Viene cacciato da Berlino, da Meiningen, da Vienna e da Praga come persona non grata, e morirà solo, durante una tournée negli Stati Uniti.
Per anni, il pubblico resterà convinto che Herman Bang si sia tolto la vita: come altro potrebbe morire un omosessuale? E invece no, è stato stroncato da un attacco di cuore.
Già , è proprio il cuore a tradirlo. Le sue compagnie amorose sono costituite perlopiù da giovani furbastri che lo frequentano per ragioni di notorietà , l’unica relazione degna di questo nome – quella con l’attore tedesco Max Eisfeld – naufraga nel giro di un anno, e il povero Herman ammazza la solitudine convertendosi al culto dell’«unico dio che non tradisce mai»: il lavoro.
Un’altra sua grande frustrazione è il fallimento della carriera di attore. Herman Bang è convinto dell’esistenza di una correlazione naturale fra l’omosessualità e il teatro – convinzione erronea, ovviamente, ma va ricordato che il mondo dello spettacolo teatrale o circense, fino a non molti decenni fa, era l’unico nel quale non si fosse soggetti a discriminazioni. Bang, sul palcoscenico, sente di dover dare prova non soltanto del suo talento, ma addirittura della sua idoneità alla vita stessa. Ecco perché l’insuccesso rappresenta un duro colpo per lui. Particolarmente appropriata, dunque, la scelta di celebrare il centenario della sua morte anche con un evento teatrale: lunedì 25 giugno, al Piccolo Teatro Studio di Milano, va in scena The Queen Is Dead, Long Live the Queen – Vita e teatro di Herman Bang, a cura di Luca Scarlini.
Related Articles
Martini, la lezione della pietà
La compassione e la capacità di spendersi per gli altri Provare la fede attraverso i fatti e le scelte concrete Occorre usare con prudenza il nome di Dio perché un pericolo grave e tutt’altro che lontano, è quello di immaginarsi Dio, proprio immaginarsi, sulla scorta dei racconti delle nonne, di un sacerdote che ci ha colpito particolarmente, di una orazione che abbiamo imparato da piccoli o di un’idea che ci siamo fatti per nostro conto.
DALL’UMANESIMO AL “RINUNCIANESIMO”
Una replica dello scrittore all’intervento di Lodoli sulle difficoltà degli insegnanti
Piccoli Saviano crescono. Nella Calabria delle cosche
IL LIBRO Sedici giornalisti «infami» che raccontano la ‘ndrangheta e rischiano. Lontano dai riflettori.