Le brigate dell’ordine costituito

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Quando il suo libro è uscito, Libération ha parlato di un testo destinato a diventare un classico per la forza e gli argomenti con cui affronta uno dei temi più sensibili della vita pubblica francese: il rapporto tra i giovani della periferia e le forze dell’ordine. Il quotidiano della gauche, che ha dedicato alla ricerca compiuta da Didier Fassin, antropologo parigino che lavora all’Institute for Advanced Studies di Princeton, la «prima» con il titolo di «Les forces de désordre», si è spinto ad affermare che «in un paese normale questo libro diventerebbe un bestseller e darebbe un contributo decisivo al dibattito politico». Caratterizzato da un timbro narrativo che ricorda più le inchieste giornalistiche che non i lavori universitari, La force de l’ordre, pubblicato nella collana La couleur des idées di Seuil (pp. 394, euro 21), ricostruisce una sorta di «antropologia» delle forze dell’ordine che operano nelle banlieue. 

La convivenza impossibile
Frutto di un lungo lavoro d’inchiesta condotto dall’autore tra i commissariati della periferia parigina, il libro di Fassin ricostruisce la vita quotidiana degli agenti, il loro rapporto con la realtà  circostante, a cominciare dall’interazione con quei giovani e giovanissimi che costituiscono una parte rilevante degli abitanti di queste zone – dei circa otto milioni di francesi che vivono nelle banlieue oltre un terzo ha meno di 25 anni -, ma anche la loro visione del mondo, gli umori e le frustrazioni degli uomini in divisa chiamati ad operare in territori complessi e disagiati.
L’antropologo ha accompagnato nel loro lavoro di pattuglia nelle cité di periferia, che si svolge di giorno ma soprattutto di notte, gli agenti delle Bac, le «Brigades anticriminalité», squadre speciali della polizia sorte negli anni Ottanta per reprimere la malavita organizzata e le mafie e che hanno finito per essere utilizzate stabilmente nelle banlieue. In particolare da quando, nel 2003, l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy decise di sopprimere la «police de proximité» voluta dai socialisti, le Bac sono diventate il volto quotidiano delle forze dell’ordine nelle cosiddette «Zones urbaines sensibles». Nel decennio che ha visto il tema della sicurezza assumere progressivamente un ruolo centrale nel dibattito pubblico – anche francese -, gli agenti delle Bac si sono così trasformati in un simbolo del clima che stava montando nel paese. Attraverso i vetri oscurati delle loro auto di pattuglia, emerge in questo libro il ritratto di una Francia che ha paura e che fa paura, incapace di ritrovare le ragioni di una possibile convivenza civile.

Un razzismo ordinario
Presentati, nelle retoriche che accompagnano l’«emergenza sicurezza», come una sorta di ultimo avamposto della civiltà  in quelle banlieue che molti politici definiscono come «territori perduti della République», gli agenti delle Bac incarnano la deriva dell’ordine pubblico democratico verso una logica di tipo militare. Una trasformazione accompagnata dall’evocazione del «nemico interno» e che pesca nell’immaginario coloniale francese. Non a caso per rispondere alla rivolta delle banlieue del 2005 si fece ricorso al coprifuoco, come non avveniva dai tempi della Guerra d’Algeria.
Tutto nell’attività  quotidiana delle Bac, racconta Didier Fassin nel suo libro, descrive una logica di guerra: gli abitanti delle periferie, specie i più giovani, non sono considerati dagli agenti come dei cittadini da proteggere, quanto piuttosto come dei «nemici» da cui guardarsi e da reprimere «preventivamente». Nella sua inchiesta l’antropologo di Princeton ha annotato minuziosamente anche il linguaggio dei poliziotti e spiega come sia la parola «giungla» quella che più utilizzano per descrivere le banlieue nelle quali operano e i cui abitanti sono perloppiù definiti come «selvaggi». 
Nelle lunghe ore passate tra pattuglie e commissariati, Fassin ha toccato con mano anche l’atteggiamento razzista degli agenti. «La trasformazione in senso razziale e razzista del rapporto con gli abitanti di questi quartieri, è del resto parte essenziale del modo di agire di questi corpi di polizia», spiega il ricercatore. Così, non stupiscono più di tanto gli epiteti insultanti all’indirizzo dei giovani fermati di origine straniera, le t-shirt con impresso il numero «732», la data della battaglia di Poitiers tra Carlo Martello e un esercito musulmano, o il fatto che nei locali di un commissariato un agente attacchi senza timore un poster di Le Pen. Il «razzismo ordinario» che si respira nelle file delle Bac, sottolinea Fassin, sembra più un risultato cercato dall’amministrazione che una variabile legata alle opinioni degli agenti. Come aspettarsi altro, sembra chiedersi l’antropologo, se si pensa che ad esempio nella brigade di cui ha seguito il lavoro per lunghi mesi non sono stati impiegati negli ultimi vent’anni che dei maschi bianchi? Se la discriminazione di genere è giustificata in base a presunti motivi di efficacia, quella razziale non ha avuto dalla sua che argomenti esplicitamente xenofobi. «All’inizio era uno degli ufficiali a non volere neri e arabi – racconta un anonimo agente a Fassin -, poi è diventato quasi un fatto naturale. Si era sparsa la voce e da noi non arrivavano che le domande di impiego di giovani bianchi».
Ma c’è dell’altro. La gran parte degli agenti delle Bac vengono dalla provincia o dalle zone rurali. Quelli del gruppo a cui si era aggregato, erano in gran parte originari del Nord Pas de Calais, figli di minatori o di contadini. Giovani a cui il mondo della periferia parigina, come del resto delle banlieue del paese, non potrebbe essere più estraneo e di cui hanno una conoscenza vaga, frutto delle immagini e dei luoghi comuni diffusi dalla televisione. Per motivi di sicurezza non viene consentito loro di vivere nelle zone in cui lavorano e molti concentrano la settimana lavorativa in quattro giorni di turni costanti, dormendo in appositi comprensori vicino ai commissariati, per poi tornare in famiglia, spesso addirittura in un’altra regione, nei giorni liberi. Il risultato è che i quartieri dove operano sono destinati a restare per sempre dei luoghi estranei e sconosciuti. Di cui aver paura e dove alimentare la paura verso le forze dell’ordine. 
«L’antropologia, in questo caso, è legata strettamente alla democrazia. Spero che questo libro aiuti a comprendere davvero che una parte della popolazione francese è oggi sottoposta a una sorta di stato d’eccezione», scrive Didier Fassin alla fine della sua ricerca, interrotta prima del tempo da un intervento del ministero dell’Interno. Negli ultimi anni Sarkozy ha infatti chiuso le porte dei commissariati ai ricercatori e smantellato la Commissione nazionale di deontologia delle forze dell’ordine. Vedremo cosa vorrà  fare ora il suo successore.


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