Lavoro, la riforma è legge Barroso: un segnale forte

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ROMA — L’articolo 18 non è più il «totem» contestato dal ministro Elsa Fornero. È passata ieri alla Camera la riforma del lavoro che lo modifica, rendendo più facili i licenziamenti. Forti le proteste dell’Idv, con Antonio Di Pietro che ha accusato i membri del governo di essere «sobri ricattatori e truffatori politici» e ha annunciato un referendum per abolire il disegno di legge.
Ma malumori si sono accesi anche nel Pdl. Quasi la metà  dei deputati non ha votato il ddl. Incluso Silvio Berlusconi, che era fra gli assenti del suo partito. In sette si sono schierati con il «no», compresi l’ex ministro Renato Brunetta e l’ex sottosegretario Guido Crosetto che paventa: «Ci saranno migliaia di licenziamenti». Qualche assenza anche nel Pd (10) e nell’Udc (6). 
Ma il ministro Fornero, che in aula non ha replicato nemmeno quando il leghista Fedriga le ha chiesto «verità  e non lacrime», incassa l’apprezzamento dell’Unione Europea. «È un grande passo avanti», ha dichiarato il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, affermando di «non vedere l’ora» di congratularsi personalmente con il presidente del Consiglio Mario Monti oggi al vertice europeo. Il voto «manda un forte segnale sulla determinazione in corso in Italia per risolvere i seri problemi strutturali che hanno per lungo tempo impedito al Paese di sviluppare tutto il suo potenziale», ha aggiunto.
Soddisfatto, Monti ringrazia e assicura: «Ora l’Italia è più forte». «È un passo importante in sé: ho apprezzato lo sforzo che il Parlamento ha fatto per approvare la riforma entro oggi (ieri, ndr.)», e «sono sicuro che tutte le parti politiche e sociali, quando un po’ di polvere si sarà  deposta, daranno una valutazione positiva e importante», aggiunge. 
Il voto (393 sì, 74 no e 46 astenuti) ha lasciato immutato il testo della riforma Fornero uscito dal Senato, malgrado lo stesso Monti ne abbia riconosciuto i limiti e si sia impegnato a cambiarlo per risolvere il problema degli esodati. Ma la fretta di portare il testo approvato al vertice di oggi di Bruxelles, come riprova dell’intenzione dell’Italia di rispettare gli impegni Ue, ha motivato la richiesta del governo di un voto di fiducia. Anzi quattro, su ciascuna delle parti del ddl. 
Cosa che non è piaciuta al capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto: «Questa è l’ultima volta che cala la mannaia della dichiarazione di fiducia che interrompe il dibattito, siete un governo di tecnici, non di consules». Più severo il giudizio di Crosetto: «Non si può votare un ddl solo con la scusa che l’Europa lo attende. È troppo votare un testo di cui ci pentiremo tra una settimana». Parla di «provvedimento sbagliato, fuori dal tempo e fuori dall’Europa» anche Renato Brunetta. Troppi no? «Siamo un gruppo liberale», fa notare Cicchitto. 
Più duro con il governo Di Pietro: «Professoroni dei miei stivali — ha tuonato — in sette mesi non siete stati capaci di ascoltare gli italiani». Al «presidente del Consiglio che non c’è», definito «sobrio ricattatore», il leader Idv manda a dire che «è ricattatoria» l’idea di «presentarsi ogni volta con un voto di fiducia». E aggiunge: «Se come dite questa legge non serve a niente, perché approvarla? Perché volete presentarvi facendo finta di credere che abbiamo fatto una legge che piace all’Europa: questo si chiama artifizio e raggiro».
Il deputato del Pd Pietro Ichino sottolinea che «il varo del ddl lavoro è l’adempimento di un obbligo assunto nel settembre scorso verso l’Ue». Ed è «positivo il fatto di aver posto il problema di una riunificazione del mercato del lavoro, e non più quella distinzione protetti-non protetti che lo ha sempre caratterizzato». Ma la Cgil non la pensa così e assicura: «La partita non è chiusa».


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