L’astrazione malata del vecchio continente

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Un sogno, l’utopia concreta di una pace perpetua in un solo continente. Un incubo, meglio una parola dal retrogusto dolce usata per occultare una dittatura tecnocratica che sta triturando le istituzioni faticosamente conquistate del welfare state. L’Europa continua a vedere la manifestazione di punti di vista opposti e confliggenti che non consentono mediazioni. Anche quando il progetto politico di una Europa unita viene presentato come una risposta dello modello sociale continentale – il welfare state, appunto – alle sfide della globalizzazione le obiezioni sull’effettivo funzionamento dell’Unione europea conquistano il centro della scena, relegando ai margini le «ragioni» di chi vede nell’Europa politica l’argine ultimo al neoliberismo. 
Della difficoltà  nel difendere l’utopia concreta dell’Europa è consapevole Ulrich Beck, teorico tedesco della società  del rischio e europeista convinto da sempre. Nei suoi interventi ha sempre sottolineato la distanza tra il progetto europeista e l’azione dell’Unione europea. E lo fa anche in questo agile volume che significativamente ha come titolo La crisi dell’Europa (Il Mulino, pp. 127, euro 10). Beck parte dalla crisi economica del 2007 e di come l’Unione europea ha cercato di arginare i suoi effetti, giungendo alla conclusione che nella definizione della trama dei rapporti tra gli Stati dell’Unione europea è risultato vincente un miope e aggressivo nazionalismo economico della Germania. Affermazione amara visto che viene da un tedesco, vieppiù rafforzata anche dalla constatazione che l’euro è stata l’arma usata dal suo paese per imporre politiche economiche e sociali al resto dell’Unione europea che garantissero la sua leadership. Beck, tuttavia, non sa indicare la via d’uscita da questa situazione che rischia di far deflagrare l’Europa. La speranza sta nella sconfitta politica del governo di Berlino. 

Confederati e cristiani
Il volume di Beck non si addentra però nell’analisi della realtà  politica europea. Raccoglie scritti e saggi presentati durante l’Altieri Spinelli Lecture di Torino che si sono svolte prima della sconfitta dei socialisti in Spagna, dell’elezione del socialista Hollande all’Eliseo. Solo la Grecia era già  sull’orlo dell’abisso. Sono quindi contributi che affrontano la crisi europea nella prospettiva della lunga durata, al punto che anche la vittoria del nazionalismo economico tedesco viene ritenuta transitoria perché sono all’opera spinte molto forti affinché la Germania smetta di giocare con il fuoco. Spinte che vedono protagonisti poteri altrettanto forti, anche se il teorico tedesco guardi con molto più interesse e simpatia l’azione del vero soggetto politico capace di invertire la tendenza, cioè la «società  civile globale». Ciononostante, Beck individua altri rischi che si stagliano all’orizzonte. La possibilità , cioè, che l’Europa politica nasca come confederazione di Stati nazionali o di un enorme Stato etno-culturale, che cerchi la sua legittimità  in una supposta identità  cristiana occidentale. 
Nel primo caso, l’Europa politica sarà  segnata da asimmetrie di potere evidenti – i paesi forti che assoggettano i paesi deboli -; nel secondo caso, il populismo cesserebbe di essere uno spettro per diventare un compiuto e temibile progetto politico su base continentale. L’invito è di elaborare un’altra proposta politica, basata sul cosmopolitismo e sulla convinzione che la modernità  è sorta e si è sempre nutrita e continuerà  a nutrirsi con l’intreccio di tradizioni culturali diverse. Allo stesso tempo la dimensione globale è irreversibile: questo impedisce il ritorno alla centralità  dello stato-nazione, ma non garantisce una convivenza su basi paritarie. Convincenti sono le pagine dedicate al traffico d’organi, fenomeno usato per indicare appunto l’interdipendenza della realtà  contemporanea. I corpi dei ricchi, annota Beck, sono già  un patchwork di organi provenienti da altri paesi, mentre i corpi dei poveri sono potenzialmente depositi di ricambio. Questo è il lato in oscuro dell’interdipendenza. Ma ce ne è uno anche positivo, cioè la possibilità  di trovare soluzioni globali che mettano in discussione i rapporti di potere esistenti. Ma per fare questo, è sempre Beck che scrive, la Politica deve rialzare la testa e destrutturare il cattivo mito che «non si può fare politica contro i mercati» e combattere l’idea, cara ai populisti mediterranei e nord-europei, che l’Europa postnazionale sarà  necessariamente postdemocratica, erigendosi così a difensori dello stato-nazione di diritto, un vero paradosso per una cultura politica, essa sì postdemocratica.
Il rinnovato protagonismo della politica, tuttavia, non deve ripercorrere l’errore del passato prossimo, cioè di quando, in nome della globalizzazione, molti teorici democratici e riformisti hanno decretato la fine dello stato-nazione. Per Beck, la sovranità  nazionale deve essere pensata come un elemento della politica interna mondiale. In altri termini, lo stato-nazione ha la sua fonte di legittimazione proprio dagli organismi sovranazionali, Unione europea in testa.
Ulrich Beck non ha mai nascosto il suo debito teorico verso il Max Weber critico della centralità  dell’economia e verso la rielaborazione della teoria critica francofortese operata da Jà¼rgen Habermas. È cioè un illuminista che guarda alla «questione europea» come una tappa del progresso, rimuovendo le contraddizioni e i conflitti emersi nell’Unione europea. Poco e nulla dice sul fatto che il modello sociale europeo così sbandierato è ormai derubricato dall’agenda politica di Bruxelles e, in misura diversa, di Strasburgo. Poco e nulla dice che il neoliberismo è diventato il vangelo, più o meno apocrifo, a cui le élite fanno riferimento. Nulla da eccepire sul fatto che l’euro sia stata l’arma usata dalla Germania per imporre il suo ordine continentale, ma l’euro è stata la fonte di legittimazione proprio dell’Europa reale.

Il potere delle élite
Sia ben chiaro, nessuna nostalgia per il passato e per la centralità  dello stato-nazione, ma solo una consapevolezza che per costruire l’Europa deve essere sconfitta l’Unione europea. Da questo punto di vista, lo sguardo deve necessariamente volgere lo sguardo non versa una indistinta «società  civile», bensì verso quei movimenti sociali cresciuti dentro l’interdipendenza e la globalizzazione. Che operano certo localmente, ma all’interno di una consapevolezza appunto dell’interdipendenza. E dunque dei rapporti di potere e di classe esistenti, cioè il vero ostacolo a una prospettiva europea. Il problema, allora, non è se uscire dall’euro o meno, o di opporre lo stato-nazione ai tecnocrati senza cuore di Bruxelles, bensì di interdire il potere esercitato in nome dell’euro. Ma per fare questo, occorre prendere congedo dalle convulsione ingegneristiche nella costruzione europea per quella «rivoluzione dall’alto» che ha consegnato il vecchio continente nelle mani delle élite.


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