L’Irlanda impaurita dice sì al Fiscal Compact

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LONDRA – Nell’Europa delle cattive notizie, finalmente almeno un raggio di sole. Per ironia della sorte arriva dalla terra dei prati bagnati perennemente di pioggia, l’Irlanda, dove con una maggioranza del 60% è stato approvato il nuovo patto fiscale, la misura faticosamente concordata dall’Ue come risposta alla crisi del debito che ha travolto il Continente. 
Per una volta dunque, c’è un due senza tre: in due precedenti occasioni, nel 2001 e nel 2008, l’Irlanda aveva gettato l’Europa nel panico, bocciando accordi di integrazione, stavolta invece ha detto di sì. Come al solito, era l’unico Paese europeo a voler giudicare un patto con una consultazione popolare anziché con un voto del proprio Parlamento, e per questo, come in passato, c’era più incertezza sull’esito. Ma da Dublino, per cambiare, non sono giunte brutte sorprese. I sondaggi della vigilia prevedevano una maggioranza favorevole al “Fiscal compact”, 40 contro 20%, tuttavia con un preoccupante 30% di indecisi. Invece al momento di deporre la scheda nell’urna, gli incerti hanno scelto lo scudo offerto dall’Europa piuttosto che il radicalismo o populismo della protesta. Cosicché il referendum ha prodotto un netto “yes” all’Europa, 60% di voti a favore. I “no” hanno prevalso in appena 5 contee su 43.
«Il popolo irlandese ha inviato un risoluto messaggio al mondo, dimostrando che questo è un Paese seriamente intenzionato a superare le difficoltà  economiche», commenta il primo ministro Enda Kenny. I maligni dicono che gli irlandesi si sono fatti semplicemente prendere dalla paura di finire come la Grecia. Stavolta l’Irlanda non aveva un potere di veto: anche se avesse respinto il patto, la nuova dottrina fiscale europea aveva bisogno della ratifica di soltanto 12 dei 17 Paesi dell’eurozona, ed è prevedibile che sarebbe arrivata lo stesso al traguardo. Ma il “no” sarebbe stato un altro segnale negativo per i mercati e per un’Europa già  in preda al più cupo pessimismo. E avrebbe privato gli irlandesi di accedere al Fondo d’emergenza della Ue da 85 miliardi (varati per due anni fa per salvare la loro isola dalla bancarotta nazionale).
Ma a Dublino c’è poco tempo per festeggiare. L’Irlanda ha bisogno che l’Europa intera si riprenda, per sperare che le sue esportazioni crescano così da ripagare un debito esorbitante, ormai pari al 120% del pil. Qualche segnale positivo, nell’Isola di Smeraldo, si coglie: è l’unica nazione dell’eurozona in cui aumentano i beni e i servizi acquistati dalle aziende. L’austerità  imposta da Bruxelles per concedere gli aiuti, tuttavia, ha incrementato la disoccupazione e la rabbia. Perciò, mentre il governo e il maggiore partito d’opposizione hanno fatto insieme campagna per il “sì” al patto fiscale, si è schierato contro lo Sinn Fein, il partito cattolico che si batte per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord dal Regno Unito, il cui leader Gerry Adams ha visto salire vertiginosamente la sua popolarità . «Insistere con la politica del rigore continuerà  ad affamarci», commenta ora Adams, riecheggiando gli slogan della sinistra greca.


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