LA VERGOGNA PERDUTA, COME SIAMO DIVENTATI UN POPOLO DI ESIBIZIONISTI

by Editore | 16 Giugno 2012 3:39

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Cosa è successo alla vergogna? Dove è finita, o come è cambiata, quell’emozione fondamentale collocata al centro dei rapporti umani e che anzi, in un certo senso, li precede, tracciando una linea che non può essere varcata senza segnare una sorta di regressione antropologica? Se essa non è sparita – visto che le sensazioni costitutive della nostra esperienza non si cancellano di colpo – certamente è mutata di segno. Dal pudore, quella che un tempo chiamavamo discrezione, essa si è rovesciata in un bisogno di esibizione, cui si può dare anche la patente di autenticità , ma che in realtà  è parte integrante di una società  in cui, per esistere, pare necessario essere visti, individuati, notati, non solo nei successi, ma anche nelle fragilità  e nelle pieghe più intime. Altrimenti non si capirebbe perché mai, quotidianamente, in uno scompartimento di treno, siamo costretti ad ascoltare le vicende private di chi urla al cellulare accanto a noi, come se fosse solo. O, peggio, perché coppie, celebri o anonime, di ogni età  e condizione, immettano in internet le immagini dei loro rapporti sessuali. E non è diventato un irresistibile richiamo mediatico il pianto in diretta di persone messe di fronte ai propri errori, rimorsi, rimpianti reali o immaginarie, di cui, poco alla volta, cominciano a vantarsi come di testimonianze di verità  e di coraggio?
Un libro di Gabriella Turnaturi, intitolato appunto Vergogna. Metamorfosi di un’emozione (Feltrinelli), prova, con gli strumenti raffinati della psicologia sociale, a fornire una risposta a tale domanda, riconducendo questa antinomia ad un orizzonte più ampio e profondo. Il suo presupposto di partenza è che, se tutte le emozioni sono costruzioni sociali, ciò vale tanto più per la vergogna. Senza lo specchio dello sguardo altrui, non si aprirebbe quello scarto rispetto a noi stessi da cui si genera la vergogna. Certo, il disagio per un nostro modo di essere, o di fare, non ha bisogno del giudizio esterno – può emergere autonomamente dentro di noi. Ma esso è sempre socialmente mediato, si struttura nel confronto con modelli e norme elaborate nella comunità  cui apparteniamo. Non per nulla, secondo il mito platonico del Protagora, a consentire la nascita della politica, non sono le tecniche assegnate inizialmente agli uomini, ma è la combinazione di dike e di aidos, di giustizia e vergogna, senza le quali non sarebbe possibile una vita in comune.
È proprio l’allentamento della coesione sociale, infatti, a produrre il depotenziamento della vergogna. Già  il passaggio da comunità  ad alto tasso di integrazione agli attuali regimi individualistici ne ha determinato un primo decremento. Ma, come già  osservava Marco Belpoliti nel bel libro edito da Guanda Senza vergogna, è il narcisismo autoreferenziale della società  dello spettacolo ad aver prosciugato i pozzi della vergogna. Non soltanto nelle nostre società  non esistono più interdetti generali, ma gli atti di cui un tempo ci si vergognava, piuttosto che celati, sono addirittura esibiti. Come si spiegherebbe, altrimenti, che personaggi più o meno noti, ripresi in case o isole, si mostrino in atteggiamenti volutamente indecorosi, mentre altri si denudano, in senso metaforico e reale, sotto lo sguardo degli spettatori – come la pornostar che, durante la sua performance, fissa attraverso la telecamera gli occhi dell’osser-
vatore? Quasi a dirgli che c’è sempre qualcun altro capace di sfregiare ancora di più il volto della vergogna, al punto di fare della sua scomparsa l’oggetto stesso del godimento.
Ciò non vuol dire che ogni tipo di vergogna sia esaurito. Ma essa sposta il suo oggetto dal piano morale a quello fisico, dalle
azioni ai corpi – non appena questi si allontanino dai canoni prefissati della bellezza mediatica o si appannino le prestazioni cui sono di continuo sollecitati. A generare vergogna, insomma, non è più un dato modo di comportarsi, ma il mancato adeguamento alle aspettative di una virtuale platea televisiva.
Nel web – osserva l’autrice – c’è perfino un sito, beautifulpeople. com, cui ci si può iscrivere, tramite foto, soltanto se si è giudicati sufficientemente attraenti. In questo modo il cerchio si chiude – è la norma fissata dai circuiti mediatici a definire la soglia della vergogna, sotto la quale ogni comportamento è potenzialmente concesso, purché procuri godimento.
Naturalmente, come sempre accade nelle dinamiche sociali, e nelle derive del senso, rimane un resto insaturo, qualcosa sporge e fa attrito. Quando una nota signora barese arriva a dichiarare in televisione che se si vuole guadagnare ventimila euro al mese, ci si deve vendere la madre, dando voce a un punto di vista non isolato, allora qualcosa non torna e qualcun altro finisce per pagare, calamitando su di sé la vergogna esorcizzata dagli altri. Nel romanzo
La vergogna, Salman Rushdie racconta di Sufiya, una donna brutta e handicappata, che nell’India della modernizzazione selvaggia assume sulle proprie spalle tutta la vergogna fuggita dal mondo – come un contenitore di carne in cui questa si riversa prima di traboccare rovinosamente nella società .
Del resto la proiezione della vergogna su individui o gruppi sociali inermi ed innocenti ha costituito da sempre un dispositivo centrale del potere. Quante volte esso si è costruito imprimendo lettere scarlatte o stelle gialle sulle vesti di chi destinava all’espulsione e poi alla soppressione? Suscitando in loro, prima che il terrore, quello strano rossore che annuncia la morte, come accadde ad uno studente italiano – ricordato da Robert Antelme in La specie umana – scelto a caso dalle SS per la decimazione. Cosa provochi quel rossore non è facile a dire – forse la vergogna per coloro che ne hanno smarrito anche le tracce. Forse qualcosa di più misterioso, che chiama in causa il rapporto del soggetto con l’immagine insostenibile della propria desoggettivazione – come un fotogramma in cui ci si vede guardati nella nudità  impudica di un corpo senza vita.
Ma quel rossore può richiamare anche un altro lato, o un altro effetto, del dispositivo della vergogna. Oltre che a dike, alla giustizia,
aidos, il pudore, può essere associato anche a nemesis, che Bernard Williams in Vergogna e necessità  (il Mulino, 2007) traduce con “indignazione”. È un’altra contraddizione cui assistiamo in questi anni di continuo sommovimento, e ribaltamento, del rapporto tra società  e individui – quando all’apparente scomparsa della vergogna fa riscontro, quasi compensandola, un sentimento di crescente indignazione. È come se, oltre un certo limite, ci si cominciasse a vergognare della mancanza di vergogna – indignandosi contro coloro che l’hanno sequestrata, o rivolta contro esseri umani obbligati a vergognarsi della propria pelle, della propria fame, della propria indigenza. Nelle situazioni in cui la crisi sociale oltrepassa un certo limite, come quella che attualmente viviamo, gli orientamenti fanno presto a mutare e a capovolgersi nel loro opposto. La vergogna non è un dato psicologico, una impressione di superficie, che possa mai esaurirsi. Essa rappresenta un elemento costitutivo del nostro essere uomini – ciò che, forse più di ogni altro carattere, ci differenzia dagli animali. In questo senso Marx ha potuto affermare che la vergogna non si limita a precedere la rivoluzione – è già  in sé una rivoluzione. Se, come un lampo, tale vergogna-indignazione è avvampata lungo tutta l’Africa Mediterranea fino al Medio Oriente, sfidando la repressione di massa, tornerà , sta già  tornando, a farsi sentire anche da noi.

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