La spesa pubblica cala del 6% ma senza crescita non basta

by Editore | 6 Giugno 2012 8:28

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È utile sapere che esiste un punto in cui tutte le chiacchiere sulla spesa pubblica arrivano a concretizzarsi in numeri. La Corte dei Conti, che ieri ha presentato alla Camera il suo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, in tempi di continui scossoni rappresenta un di questi porti «sicuri». Non che sia impermeabile all’ideologia (insiste sulla necessità  di «realizzare un abbattimento significativo del debito, attraverso la dismissione di quote importanti del patrimonio oggi in mano pubblica»), ma è istituzionalmente costretta a far vedere ciò che in politica spesso si usa nascondere.
Partiamo dunque dalle conseguenze della politica di «rigore». «Occorre incidere sui fattori che bloccano la crescita per recuperare, ma solo grazie ad incrementi di Pil, il gettito mancante». Perché il margine di aumento dell’imposizione fiscale è ormai inesistente; anzi si rischia che «un ulteriore rallentamento dell’economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito». 
La coperta si è insomma accorciata al punto che anche i tagli alla spesa pubblica seguono una dinamica simile. Un passaggio del rapporto che è bene vedere da vicino. A sorpresa, la Corte rileva che «le spese dello stato – nel biennio 2010-2011 – sono diminuite del 6%». Soltanto nel settore della sanità , per esempio, nelle previsoni si puntava ad una diminuzione nell’ordine dei 18 miliardi; mentre a consuntivo sono risultati 22. Un dato che «nei fatti si rivela più stringente di quanto sembri essere percepito dall’opinione pubblica nazionale» (ovvero dai media che la «informano»). Ma questi risultati rischiano di essere vanificati da una «crescita asfittica», che porta con sé un’inevitabile «gettito fiscale al di sotto delle previsioni».
Ad aggravare la situazione concorre l’evasione fiscale. Nonostante l’esibito incremento dei controlli e l’attivismo cieco di Equitalia, soltanto per l’Iva (non versata nel 29,3% dei casi) e l’Irap (19,4%; è la tassa sulle attività  produttive che finanzia la sanità ) l’evasione ha causato «un vuoto di gettito di oltre 46 miliardi l’anno». Lo Stato spende meno, ma incassa anche molto meno. Concentrare l’attenzione su ulteriori riduzioni di spesa – spiega la Corte – è per un verso «giusto», ma senza «la ripresa» sarà  largamente inefficace.
Sempre restando al settore sanità , infatti, sono ancora presenti «frequenti episodi di corruzione» (legati alla spesa per forniture, servizi, convenzioni, ecc, che non riguardano i servizi essenziali); accompagnati da «fenomeni di inappropriatezza organizzativa e gestionale che opportunamente ne fanno un ricorrente oggetto di attenzione ai fini dei programmi di tagli di spesa». Qui anche la Corte si morde un po’ la coda. La «gestione» delle Asl era stata infatti assegnata a de «manager», di nomina politica, proprio allo scopo di amministrare «con più efficacia» le varie strutture e comparti. Sono questi manager, quasi sempre, a essere «attenzionati» dalla magistratura per inchieste sulla corruzione; specie per quanto riguarda il rapporto con la «sanità  privata in convenzione». Se si butta un occhio agli scandali famosi – dalla romana «Lady Asl» alla meneghina «Santa Rita» regina dell’horror – si vede che è la commistione tra pubblico e privato all’origine delle ruberie più sostanziose, quelle da milioni di euro l’anno. 
Si torna quindi al problema vero: non è l’esistenza e la funzionalità  di una sanità  in mano pubblica a essere fonte di «sprechi e malversazioni», ma una gestione politica della cosa pubblica fatta per favorire l’imprenditoria privata che opera in regime di monopolio, ma sostanzialmente finanziata dal «pubblico». Gli esempi sono noti a tutti: dalla visita «intra moenia» all’analisi specialistica. Una separazione netta, accompagnata da un potenziamento razionale del servizio pubblico, si tradurrebe con molta probabilità  in un risparmio sostanzioso, servizi migliori qìe qualche corrotto in meno.
È solo una delle «contraddizioni» che la Corte ha visto «esplodere lo scorso anno» nell’«attuazione della politica di bilancio». Se ci si toglie il paraocchi per cui «il privato è meglio»…

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