La scure dell’Europa carolingia che può spaccare in due l’Italia

by Editore | 25 Giugno 2012 8:34

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Giorni fa, il «Financial Times» — l’autorevole «Financial Times», come usa dire — ha soffiato sul fuoco dell’orgoglio padano, affossando al tempo stesso la residua autostima dei meridionali. Per alcuni leader continentali, ha spiegato il columnist Tony Barber, la taglia ideale dell’Unione Europea non è il grande impero romano, ma quell’impero di Carlo Magno che non andava oltre la Francia, i Paesi del Benelux, la Germania e l’Italia del Nord. Alle nostre orecchie, le parole di Barber evocano una disunità  che ci riporterebbe indietro di centocinquant’anni, prefigurando un Nord felicemente mitteleuropeo, ma anche un Sud fragile nelle strutture economiche, troppo poco produttivo per il suo livello di vita, afflitto da debolezze politiche e civili, ininfluente sul piano internazionale. Una sorta di seconda Grecia.
Sono ipotesi remote, si dirà , mai seriamente prese in considerazione dal senso comune e dalla politica, neppure nelle stagioni più radicali della Lega di Bossi. E tuttavia esse mettono il dito sulla più antica delle nostre piaghe, il dualismo. Dopo tutto, c’era voluto Garibaldi per imporre uno Stato nazionale dalla Sicilia alle Alpi, forzando le radicate diffidenze di altri padri della patria, come Cavour, nei confronti del Sud della penisola. L’Italia unita nasceva nel segno di una forte diversità  territoriale, che ne avrebbe condizionato pesantemente la storia. E se è vero che il Paese ha potuto convivere con la questione meridionale per un secolo e mezzo, ottenendo nel frattempo straordinari successi economici, civili e geopolitici, resta il fatto che quel confine interno appariva vistoso già  nel 1861 e vistoso rimane all’inizio del Terzo Millennio. Salvo che oggi la grande frattura deve fare i conti con una crisi epocale del Paese. O forse è il Paese a dover fare i conti, finalmente, con la grande frattura.
Al tema del dualismo Carlo Trigilia dedica ora un volume stringato e lucido, che già  dal titolo (Non c’è Nord senza Sud, Il Mulino) sembra prendere nettamente le distanze da ogni prospettiva antiunitaria. Tanto più nelle attuali circostanze, scrive l’autore, «non è possibile immaginare una vera svolta in direzione di una crescita solida dell’Italia se non verrà  sciolto il nodo del Mezzogiorno». Parole che sembrerebbero riproporre la classica richiesta alla politica nazionale di farsi carico con maggiore generosità  dei problemi del Sud.
Ma Trigilia non ha alcuna attitudine rivendicativa ed è lontano anni luce dall’idea di un Mezzogiorno in credito nei confronti del Paese. Il quadro che le sue pagine disegnano del Sud ricorda, semmai, la consapevolezza autocritica del migliore meridionalismo. Le stesse policies dedicate a quei territori nel corso del tempo gli appaiono, malgrado l’enorme impegno finanziario, prive di effetti decisivi, se non controproducenti. La strategia dell’industrializzazione, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, edifica sterili cattedrali nel deserto e ostacola la nascita di una piccola impresa locale. I provvedimenti a sostegno dei redditi familiari, negli anni Ottanta, migliorano il tenore di vita della società  locale, ma ne accentuano una devastante dipendenza dalla politica e ne stroncano la produttività . E così via.
Il Sud di Trigilia, pur con tutta l’empatia dell’autore, finisce per essere un grande circuito vizioso, dove la mancanza di crescita economica è surrogata dalla mediazione politica e dove la debolezza dei meccanismi selettivi del mercato (ivi compreso quello elettorale) produce servizi inefficienti, spreco di denaro pubblico, sopravvivenza artificiosa di élite locali spesso mediocri. Per parte sua, la politica nazionale sembra accettare di buon grado certi vizi meridionali e, anzi, li promuove. Se il Sud viene foraggiato con crescente generosità  lungo tutti i decenni repubblicani (ma anche prima, direbbe uno storico), è perché si presenta come «un esercito elettorale di riserva», il quale riesce utilissimo alla stabilità  politica del Paese e delle sue classi dirigenti. Lo scambio tra centro e periferia — risorse statali contro consenso — appare inossidabile nel tempo e di reciproca soddisfazione.
Il punto, tuttavia, è in quale misura un simile modello sia compatibile con le circostanze eccezionali della crisi odierna. Tradizionalmente, e fino a pochi anni fa, il dibattito verteva sulle risorse e sui modi per portare il Sud ai livelli del resto del Paese. Tuttora, istituti come la Svimez e presidenti regionali come Nichi Vendola o Raffaele Lombardo appaiono convinti che il problema sia un impegno finanziario per il Mezzogiorno ritenuto insufficiente. Ma il dato significativo è che oggi acquistano sempre maggior peso valutazioni di segno opposto, le quali tendono piuttosto a vedere il Sud come un potente elemento di freno per le aree più avanzate (e dunque per la crescita del Paese). Al proposito, Luca Ricolfi ha parlato di un vero e proprio «sacco del Nord», quantificando in alcune decine di miliardi l’anno i trasferimenti che, sotto forma di prelievo fiscale e di spesa pubblica, vanno dalle regioni settentrionali a quelle meridionali. Il territorio da salvare, osserva Ricolfi polemicamente, è il Nord, non il Sud.
Si tratta di un cambio radicale, nell’analisi del dualismo: dal problema del ritardo meridionale al problema del depauperamento settentrionale. Ne è consapevole Trigilia, che prende le distanze dalla tesi dello sfruttamento del Nord, perché sottovaluterebbe il ruolo svolto storicamente dal Sud nella crescita del Settentrione, ma soprattutto dissente dal rivendicazionismo del ceto politico meridionale. Conti alla mano, il Mezzogiorno ha goduto per decenni di trasferimenti netti molto cospicui e non è perciò ragionevole imputare i suoi problemi alle attuali minori entrate: il punto non è la quantità  delle risorse, ma il loro cattivo utilizzo. In fondo, tra 1996 e 2009, le imprese meridionali sono state ricoperte d’oro: oltre cento miliardi, tra incentivi e crediti d’imposta. Per non parlare dei fondi strutturali europei, che, tra 2000 e 2013, ammontano ad altri novanta miliardi (e vengono spesi soltanto in piccola parte).
Mai come ai giorni nostri il Mezzogiorno non è — o non è soltanto — un problema di coesione solidaristica. Sono troppe le criticità  del modello italiano che nascono a Sud, perché la riforma del Paese non dipenda in primo luogo dalla riforma del Sud. Recuperare efficienza al sistema, accrescerne la produttività , ridurre la pressione fiscale, sconfiggere le mafie significa né più e né meno che agire sui territori dove inefficienza, spesa improduttiva, evasione fiscale e criminalità  sono soprattutto diffuse. Se «non c’è Nord senza Sud», è perché il Paese e le sue aree più avanzate non avrebbero alcun futuro ove mai il Mezzogiorno restasse quello che è.
Naturalmente, il brusco passaggio dalla vittimizzazione alla colpevolizzazione del Sud promette di avere conseguenze politiche. Anche uno studioso come Trigilia, che non ha mai mostrato tendenze statalistiche, riconosce che la soluzione della questione meridionale non può essere gestita all’interno di quei territori, ma va presa in consegna dalle istituzioni centrali. È questa la leva che permetterà  di sollevare il macigno del dualismo. Vent’anni fa, Trigilia aveva creduto che il «keynesismo perverso» delle politiche per il Sud potesse venir superato dalla nuova leva dei sindaci ad elezione diretta, che per qualche tempo suscitarono un forte consenso popolare. Ma quella stagione si è rivelata mediocre e talvolta fallimentare, come lo stesso sociologo ammette, sicché oggi la sua ricetta appare diametralmente opposta: non più fiducia agli enti locali, ma richiesta di uno Stato centrale forte e capace di tenere sotto controllo proprio quei poteri locali che spesso hanno dato cattiva prova di sé.
Anche questa, tuttavia, sembra una strada in salita. Finché il Sud verrà  utilizzato come serbatoio di consensi dalla politica, è poco realistico pensare che sia la politica a metterlo in riga, rischiando di perderne i voti. Gli stessi recenti tentativi di imbrigliare l’allegra finanza meridionale nascono dalla grave situazione erariale e non da un cambio di strategia di governo e Parlamento. Necessità , più che virtù.
Ma intanto, come spiegava il «Financial Times», c’è chi comincia a fare i conti senza il Sud. Complice la crisi, diventa sempre più chiaro che l’Italia non andrà  molto lontano, restando per metà  Germania e per metà  Grecia. L’ombra di un impero carolingio, che si ferma alla Linea Gotica, va presa sul serio.

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