La riforma infinita del lavoro
Il quesito ce lo trasciniamo dietro da quando il governo ha approvato in consiglio dei ministri la riforma del mercato del lavoro, il 23 marzo. Nel governo ci sono due scuole di pensiero. Quella del ministro del Lavoro, Elsa Fornero, favorevole a regole il più possibile uniformi. Quella del collega della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, deciso invece a difendere la specificità dei dipendenti pubblici. Al punto da aver firmato, il 4 maggio, un accordo con i sindacati che sui licenziamenti illegittimi per motivi disciplinari non prevede la possibilità che il giudice disponga l’indennizzo, come dice invece la riforma Fornero, ma lascia immutato il diritto al reintegro. L’accordo dovrebbe essere tradotto in un disegno di legge delega che però Patroni Griffi, sommerso dalle polemiche, non ha ancora presentato.
Ieri i due ministri hanno diffuso una nota congiunta per dimostrare che tra loro non c’è conflitto. Obiettivo della riforma, spiegano, è rendere la pubblica amministrazione migliore, più efficiente, più produttiva, più trasparente: «I licenziamenti sono una sanzione e possono essere un deterrente. Dunque sono uno strumento, non l’unico». Proviamo a tradurre. La riforma Fornero, come ha più volte ammesso lo stesso ministro, rende più facile licenziare e lo fa anche nella presunzione che ciò sia funzionale a un miglioramento della produttività e scoraggi i lavativi e le teste calde (un deterrente, appunto). Ora, giusto o sbagliato che sia percorrere questa via, non si capisce davvero perché i licenziamenti in funzione di deterrenza non dovrebbero valere proprio nel pubblico impiego dove certamente questa esigenza è maggiormente avvertita. Detto in altri termini: se il Parlamento dovesse decidere appunto che il «deterrente» non serve nella pubblica amministrazione, con quali argomenti potrebbe sostenere che invece esso è necessario nelle fabbriche e negli uffici privati?
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