by Editore | 4 Giugno 2012 7:11
C’è una tendenza in atto a moralizzare la filosofia. Non nel senso di rendere buoni i filosofi – ‘vaste programme’, avrebbe detto qualcuno. Ma nel senso di porre i valori morali al centro della ricerca filosofica, al punto da fare dell’etica non più un suo territorio, ma la questione stessa del pensiero. E’ questo il presupposto implicito, e anche la tonalità diffusa, che sembra accomunare una serie di libri recenti come La questione morale di Roberta de Monticelli (Cortina 2010), Filosofia morale di Luigi Alici (La Scuola 2011), Il coraggio dell’etica. Per una nuova immaginazione morale di Laura Boella (Cortina, 2012). Se si aggiunge che dopo una fortunata collana filosofica del Mulino, su ciascuno dei dieci comandamenti, ne è nata un’altra, da Cortina, sulle virtù, i cui primi titoli sono Sincerità (di Andrea Tagliapietra), Rispetto (di Roberto Mordacci) e Coraggio (di Diego Fusaro), il quadro si completa. Dopo una fase in cui il compito del pensiero è apparso quello di decostruire i valori consolidati, ponendo un interrogativo critico sulla loro vigenza, oggi la filosofia torna a riproporli in prima persona, parlando direttamente il linguaggio della morale.
I motivi di tale svolta sono evidenti. Nel momento in cui non solo l’etica pubblica sembra affondare sotto il peso di una corruzione ormai insostenibile, ma anche la politica diventa un collettore di interessi privati, la filosofia è portata ad assumere un ruolo di supplenza nei loro confronti. Questo spiega lo straordinario successo della filosofia in piazza, anch’esso in contrasto con la crescente disaffezione politica. Contro l’illegalità dilagante, e la vera e propria barbarie che esplode improvvisa a devastare il senso stesso della vita umana, L’elogio del moralismo – è il titolo del vibrante pamphlet di Stefano Rodotà (Laterza 2011) – diventa più che un segno di rivolta. Esso è un anticorpo nei confronti di questo virus micidiale e insieme un invito alla ricostituzione dello spirito pubblico. Del resto tutti i saggi citati esprimono una simile esigenza di riscatto e di ricostruzione di un tessuto sociale lacerato. La necessità di uno scatto morale rispetto a comportamenti nutriti da un cinismo diffuso, da un minimalismo etico, o anche da un male radicale che distrugge la nozione stessa di responsabilità individuale. Da qui l’invito al coraggio della protesta aperta, la ricerca di nuovi percorsi etici, il richiamo ad una capacità immaginativa che ricostruisca su altre basi il rapporto tra sé e gli altri.
E tuttavia, ciò detto – individuate le ragioni oggettive e le intenzioni soggettive di questa inclinazione della riflessione filosofica verso la sfera della morale – resta aperta una domanda sul suo significato d’insieme. Può, la pratica del pensiero, limitarsi alla riproposta di valori che sono già parte integrante della nostra cultura e che, almeno in linea di principio, nessuno mette in discussione? Perché se è chiaro che proprio in questo periodo si stanno sviluppando tante linee di dibattito diverse, da quella di critica al dominio quasi metafisico dell’economia al nuovo realismo, è anche evidente come il lavoro più “emergente”, soprattutto nella percezione esterna, sia questo tipo di ragionamento morale.
Ma il compito della filosofia si può ridurre a quello di fondare razionalmente quanto appare ovvio alle persone dabbene? Oppure le compete anche l’onere di cercare, all’interno di quegli stessi valori, come si sono sedimentati nella nostra tradizione, i motivi di lunga durata della loro difficoltà a tradursi sul piano della pratica concreta? La filosofia contemporanea può, insomma, rinunciare alla propria anima analitica e critica a favore di una attitudine soltanto normativa e prescrittiva? Interrogativi del genere nascono dalla rilettura di un celebre testo di Nietzsche che Einaudi ristampa, con una bella prefazione di Pier Aldo Rovatti. Si tratta di La genealogia della morale, scritto d’un fiato nell’estate del 1887, e rivolto ad investigare la nascita delle nostre idee morali, riconoscendo in essa qualcosa che sottilmente le contraddice. Quale è, si chiede Nietzsche, ‘il valore dei valori’ – al di là di ciò che essi presuppongono come evidente e che invece può sempre rovesciarsi nel loro opposto.
La sua risposta è che, per penetrare nella loro scatola nera, i valori vanno messi in rapporto con i tre ambiti della storia, della vita e del conflitto. Quanto alla prima, è necessario portare a coscienza il fatto che essi non soltanto non sono eterni, ma si intrecciano inestricabilmente con le pratiche umane in una forma che non consente di assolutizzarli. Come è noto, molte delle peggiori nefandezze politiche, vicine e lontane, sono state consumate in nome del bene, della verità , del coraggio. Il problema è di sapere cosa, quale groviglio di egoismi e di risentimenti, si nascondeva dietro queste gloriose parole. Il significato della genealogia – come quella attivata da Nietzsche e, dopo di lui, da Foucault, sta nella consapevolezze che ciò che si presenta come primo, o come ultimo, ha dentro di sé i segni del tempo, le cicatrici delle lotte, le intermittenze della memoria. Nulla è più opaco, impuro, bastardo delle origini da cui proveniamo. Il genealogista buca la crosta dell’evidenza, scopre tracce nascoste, solleva i ponti gettati dagli uomini per coprire i buchi della falsa coscienza. Come ben argomenta Massimo Donà in Filosofia degli errori. Le forme dell’inciampo (Bompiani 2012), senza una pratica consapevole degli errori, una analitica degli ostacoli, non vi sarebbe filosofia
Quanto alla vita, la tesi di Nietzsche è che i valori spirituali – rivolti a modelli ascetici – determinino talvolta un pericoloso effetto recessivo. La sua polemica è diretta soprattutto contro la religione cristiana, orientata ad una complessiva svalutazione, e anche mortificazione, della dimensione corporea, che ha condotto al declino delle virtù politiche. Che il significato conferito da Nietzsche al termine ‘politica’ sia altamente problematico, non toglie la forza dirompente delle sue argomentazioni. Al fondo della vita vi è sempre un miscuglio di forze, impulsi, emozioni, dei quali è bene tenere conto per non farli ritorcere contro la vita stessa. E’ appena uscito un godibile libro di Franà§oise Heritier, Il sale della vita (Rizzoli, 2012), che ricostruisce, con ironia e finezza, la trama dell’esistenza a partire dai piccoli gesti e affetti della vita quotidiana, irriducibili ad un semplice elenco di valori. Quando Nietzsche mette la salute in rapporto con la malattia – e chi più di lui poteva farlo? – intende dirci che se la filosofia perde il nesso con la contraddizione che è parte di noi, smarrisce il senso più intenso dell’esperienza.
Infine il conflitto come l’unico possibile ambito di dispiegamento dei valori. Contrariamente a chi immagina che i valori uniscano sempre, Nietzsche sa bene che nulla più di essi può dividere. Ciò non solo è inevitabile, ma anche produttivo, perché senza la tensione attraverso la quale valori contrapposti si sfidano, la nostra esistenza cadrebbe nella piattezza di una omogeneità coatta. Naturalmente, perché ciò accada, perché rimanga vitale, e non diventi distruttivo, il conflitto non deve eccedere gli argini civili che la società si è data. Ma alla base di tutto vi è il riconoscimento di questa dinamica. Come ha ben visto Carl Schmitt, in un saggio ristampato da Adelphi con una prefazione di Franco Volpi (La tirannia dei valori, 2008), i valori che si vogliono assoluti, che non aprono una dialettica con concezioni diverse, tendono a divenire tirannici. Naturalmente si può sempre sostenere, come a volte si legge, che Nietzsche era un pazzo, Heidegger solo un nazista e, magari, Baudelaire un pervertito. Ma in questo modo non si fa un gran servizio alla filosofia.
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