by Editore | 5 Giugno 2012 6:37
MODENA — Al presidente tedesco della multinazionale, che l’ha chiamata domenica sera dopo l’ennesima scossa superiore al quinto grado, Giuliana Gavioli, direttore generale della Braun Avitum Italy a Mirandola (175 dipendenti, 46 milioni di fatturato), ha fornito, diciamo così, una versione edulcorata del terremoto all’emiliana: «Ma no, niente di grave, solo una scossa di assestamento, ripartiremo presto…». Una mezza bugia che nasconde un’enorme paura: che le multinazionali del biomedicale (6 solo a Mirandola e dintorni, oltre a 150 aziende) decidano che non vale più la pena correre rischi e «magari se ne vanno in Svezia o in Polonia».
Vainer Marchesini, presidente di Wamgroup (1800 dipendenti di cui 400 in Italia), specializzata in meccanica, con sede a Cavezzo, ha ricevuto attestazioni di solidarietà da mezzo mondo: «Intanto però alcuni concorrenti ci stanno soffiando i clienti, vanno in giro a dire che faremo fatica a ripartire: è il mercato, certo, ma per riguadagnare quote poi occorreranno anni». E pure Nicoletta Razzaboni, titolare di Cima (20 milioni di fatturato, 81 dipendenti), sede a Mirandola dove produce dispositivi per la sicurezza, ha ricevuto tanta solidarietà , ma altrettante disdette, e poi ha un grosso problema: «Ascolto le istituzioni e non capisco: la Regione dice una cosa, la Protezione civile un’altra…». Anche per questo Roberto Fabbri, presidente della ceramica Abk Group (120 dipendenti a Finale Emilia, 87 milioni di fatturato), istituirebbe «una sorta di commissario, come per l’Expo, al quale facciano capo tutte le esigenze delle aziende».
Quattro imprenditori. Quattro storie. Un terremoto infinito. Anche se imposto dalla disgrazia, il copione scelto ieri dall’assemblea generale di Confindustria Modena non poteva essere più efficace nell’offrire volti e voci alla Waterloo di un’economia mutilata dai morsi della terra. Un bacino che costituisce l’1% del Pil nazionale, il 10% di quello regionale e che, come ha ricordato il presidente Pietro Ferrari, riunisce 500-600 aziende industriali per 12 mila dipendenti, con tributi al Fisco pari a 6-7 miliardi e un fatturato Iva di 400 milioni. Un tesoro a forte rischio. Non è un caso se il neopresidente degli industriali, Giorgio Squinzi, che da queste parti ha due stabilimenti, non si perde una battuta dei lavori al forum Monzani. «Il vero problema è ricreare le condizioni per riprendere l’attività », dice, andando subito al sodo. A partire dal problema dei capannoni: danneggiati, riaperti, di nuovo danneggiati. E ora chi li riapre? «C’è una questione di sicurezza e di responsabilità » sottolinea Dario Di Vico del Corriere della Sera che modera il dibattito. E infatti Roberto Fabbri dell’Abk Group si chiede: «Dopo la scossa del 20 maggio avevo ottenuto l’agibilità , ma ora non so se quei certificati sono ancora validi con il nuovo decreto…». Hanno fretta, una fretta spaventosa. Vainer Marchesini della Wamgroup, è uno che non intende mollare, però non può fare a meno di allungare lo sguardo sul baratro: «Ho perso la metà dei 70 mila metri quadrati dei capannoni, il fatturato è a zero, i costi corrono e l’indebitamento pure, molti ordini sono stati annullati: Modena ha sempre dato molto allo Stato, ora ci vuole un intervento straordinario a fondo perduto». E poi certezze, programmazione: «Ad esempio — ringhia Nicoletta Razzaboni —, la storia della detassazione fino a settembre è una presa in giro: a Roma forse pensano che in 3 mesi ci si risollevi?».
Giuliana Gavioli della Braun Avitum si sente addosso il fiato dei suoi superiori all’estero: «Anche solo 15 giorni di ritardo possono significare la perdita di un mercato, il biomedicale rischia lo smembramento». Il direttore Ferrari la lista per il governo l’ha pronta. Al primo posto, il saldo dei crediti da parte della Pubblica amministrazione: «Tra le nostre associate e le altre, si viaggia sui 700 milioni…».
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