by Editore | 22 Giugno 2012 8:48
Di questi l’ultimo – Il film della sua vita, di recente pubblicato da Sellerio a cura di Vittoria Martinetto (pp. 221, euro 13) – anche se inconcluso è probabilmente quello più riuscito.
Si parla della vita e della morte della madre del narratore, bambina cresciuta in umili ambienti contadini nel Veneto, giovane donna che si trasferisce in provincia di Torino negli anni della resistenza antifascista e nel dopoguerra sposa un modesto impiegato, madre controvoglia di un ragazzo omosessuale che, oppresso dal clima repressivo della piccola provincia, emigra in città e diventa redattore nella più nota casa editrice torinese, infine donna incattivita da una vita mediocre e solitaria, in guerra col mondo e specialmente con il figlio che vede come un uomo inutile e ingrato.
Se seguiamo la traccia dei suoi precedenti romanzi, possiamo dedurre che con ogni evidenza Morino scrive qui della propria vita e dei drammatici rapporti con sua madre, ma bastano piccole alterazioni dei dati autobiografici per trasformare quello che poteva essere un esercizio di memoria in un convincente testo letterario. Un elaborato estro stilistico, una prosa in apparenza senza pretese ma densa di significati obliqui in ogni riga, un impietoso senso dell’umorismo nero debitore della tradizione spagnola, la capacità di rendere con brevi tratti illuminanti le vicende italiane degli anni in cui la madre prima si emancipa dai legami originari e poi costruisce il tortuoso legame col figlio, sono gli aspetti che più colpiscono in questo romanzo di Morino.
Dovendo evidenziare la linea conduttrice di un testo disegnato a partire da un corpo narrativo frammentato e ricomposto in capitoli e note – in realtà capitoli complementari e riflessioni sul lavoro del raccontare – sono molti e complessi gli spazi che si aprono al lettore: dall’epopea sociale segnata da una vita famigliare di stenti e sofferte avventure migratorie, all’intricato nodo edipico che inchioda madre e figlio in un rapporto di amore-odio senza vie d’uscita.
E di questo rapporto che solo la morte può risolvere, il narratore dice senza reticenze persino l’indicibile, arrivando a costruire con la figura della madre un personaggio letterario di notevole spessore.
Certo, il conflitto centrale del romanzo – madre dominante e sprecata in una permanente frustrazione, figlio costretto a occultare in casa la propria scelta sessuale e infine in fuga dall’oppressione domestica – è tutt’altro che nuovo o originale, ma sappiamo bene che il valore di un testo letterario non dipende dalla materia prima, bensì dal coraggio nell’andare fino in fondo nello svelamento di una verità . In questo senso Angelo Morino non vacilla, adotta una tecnica narrativa piena di rischi ma allenata in una sterminata cultura letteraria, che si pone anche il compito di domandarsi perché e come si racconta ciò che si sta raccontando.
L’incipit, reminescenze camusiane, ci introduce senza mezzi termini nella materia del romanzo: «È una bella giornata di festa, con tanto sole, fra le ultime di aprile. Mancano pochi minuti alle cinque del pomeriggio, quando me lo dicono. Mia madre ha un cancro». E nella breve appendice che la curatrice decide assai opportunamente di inserire nell’ultima pagina, Morino prende il posto del narratore o anticipa il narratore con un appunto redatto in un momento che non ci è dato sapere: «…un giorno mi siederò davanti al computer / e deciderò di scrivere la storia di mia madre / dapprima ne scriverò due pagine, quelle in / cui si racconta la sua entrata in ospedale / poi mi interromperò a lungo / e riprenderò solo ecc. ecc.».
Fra l’apertura e la chiusura (che evidentemente non è una chiusura), nel raccontare questa storia Morino dissemina i segni e i segnali di un’abissale perplessità : Ma tutto questo è davvero accaduto nel modo in cui sto dicendo che sia accaduto? Non è in fondo la scrittura un sistema di tradimenti?
Il narratore fino a un certo punto sembra sicuro del fatto suo, ma procedendo si accorge con sempre maggiore chiarezza che la storia stessa della madre ci mette davanti a una finzione: «Ha fatto ritorno alla finzione e se n’è messa al centro, obbedendo al suo carattere da protagonista a tutti i costi, da attrice sicura della sua parte, da commediante che recita per non soccombere alla sua pazzia. Quanto alla finzione su cui ci siamo organizzati a vivere, ne reggeremo insieme il peso sino alla fine».
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