by Editore | 1 Giugno 2012 7:39
Leggo e rileggo gli articoli di inviati speciali che, con un poco di stupore, mettono in luce la forza d’animo e la robustezza del carattere di quella che più che mai sento come la mia gente, che risponde alla tragedia, forse non ancora finita, oltre che con la paura che è logico avere, a anche — come io mi sarei aspettato che reagisse — col pensiero di fondo che si riassume in una frase tante volte ripetuta al cronista turbato: «Cosa vuole che le dica, non ce lo potevamo aspettare, adesso bisogna ricominciare mettendosi al lavoro».
Non so perché, il pensiero ritorna a quel momento speciale nella storia della mia terra e della mia città , quando, appena finita la guerra, superati gli ultimi sussulti di quella che era stata la Resistenza, la vita ricominciò, anche con manifestazioni inattese. Prima di ripartire dall’esilio argentino avevamo ricevuto lettere che rispondevano alle nostre tante domande con parole (e cito) che ci lasciavano un poco sconcertati: «Chiedete che cosa si fa a Modena? A Modena si balla, ballano gli studenti e i professori, ballano i tranvieri e i negozianti, con un entusiasmo eguale a quello con cui ci si è rimessi al lavoro, per ricostruire i tanti edifici e posti di lavoro distrutti». Questo non accadde, beninteso, solo a Modena. Mi torna in mente una frase di Ciampi, rievocando la sua Livorno semidistrutta di quegli anni: «Andavamo a letto la sera pensando a quello che avevamo fatto durante il giorno, e a quello che avremmo dovuto fare all’indomani».
Si stanno oggi scoprendo delle nostre realtà che gli altri italiani evidentemente ignoravano. Per esempio, che Mirandola (noi dicevamo: «la Mirandla»), non è più un paese agricolo ma una città che, con i paesi vicini, costituisce un centro d’importanza mondiale del biomedical e di tanti altri prodotti nati dalle tecnologie più avanzate. Come se non si sapesse che in un quadrilatero che va da Reggio e Modena a Ferrara e Bologna ci siano quattro grandi università , fra le più antiche del mondo, ma anche fra le più moderne. Ci si è accorti d’un tratto che le Ferrari non sono nate soltanto da una dissennata passione per la velocità e dalla voglia istintiva di arrivare primi (in verità lo sono), ma anche da una certa genialità modenese e da una bravura tecnica, per non dire scientifica, coltivata e trasmessa da generazione a generazione.
Nasce poi nell’animo un certo rammarico e quasi un senso di colpa per non essere lì, sul posto, a dare, non so come, una mano. Attendiamo e riceviamo notizie inattese. Nel cimitero ebraico del Finale — Finale Emilia, di cui per antichi meriti famigliari sono cittadino onorario — sono caduti degli alberi, ma sono rimaste intatte, essendo state qualche anno fa irrobustite con un muretto di supporto da mani gentili le lapidi di famiglia di quel mio antenato chiamato Nathan Nathan, che vi giunse da chissà dove nel 1501 con famigliari, carri e servitori, e che presto italianizzò il suo nome in Donato Donati (anche se non nelle lapidi, scritte in un antico e poetico ebraico). Ma non mi stupisce il tono pacato e concreto delle parole del «mio» sindaco del Finale quando risponde alle domande stupite ed ansiose dell’intervistatore televisivo. A me sembra, semplicemente, che parli finalese. C’è già tanta preoccupazione, diciamo pure tanta paura in giro, e come potrebbe non esserci? E uno pensa: ma lasciatelo lavorare.
Turba avere scoperto, dopo secoli di tranquillità geologica, che la nostra terra gentile e prospera nascondeva, sotto i nostri piedi, un’infida faglia appenninica, in geologica marcia verso il nord sotto quelle falde acquifere da cui i nostri pozzi, di cui eravamo tanto orgogliosi, traevano tutta l’acqua necessaria alla nostra ricca agricoltura. Ma dà anche alquanto fastidio sentirsi dare, nei dibattiti televisivi, tanti rimproveri per la nostra mancata preveggenza da sedicenti esperti romani, dimentichi dei tanti terremoti che hanno contribuito a far crollare il Colosseo: a meno che anch’esso fosse stato costruito male.
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