LA LOTTA INFINITA ALL’EPICA MAFIOSA

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Sono il rigore e la chiarezza le virtù che Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, trasferisce dalla professione alla scrittura. Lo fa senza il minimo narcisismo, senza alcuna pretesa di farsi “scrittore” ma con un’ostinata volontà  di raccontare quel che sa e che vorrebbe il maggior numero di italiani sapesse: la camorra non è un problema criminale ma un cancro che sta erodendo la società  dalle sue fondamenta. Lo fa con umiltà , con senso civico e con “spirito di servizio”, se così si può definire: come se fosse un corollario del mestiere che ha scelto, quello di indagare sulle cellule di quel tumore e provare, per quanto nelle possibilità  di uno solo, ad estirparle. Scrive dopo aver chiuso i fascicoli del palazzo di giustizia, scrive parole destinate a tutti per tradurre in lingua accessibile a chiunque ciò che nel linguaggio tecnico del suo mestiere ha per mesi e per anni scandagliato, analizzato, dimostrato.
Ci dice ad ogni pagina, Cantone, che solo la consapevolezza collettiva del sistema corruttivo e criminale che ha innervato la società  potrà  contribuire a sconfiggerla. Solo la conoscenza, questa è l’arma. Così racconta – sempre togliendo romanzesco al reale, mai nulla concedendo al colpo di teatro – grandi e piccole storie di ordinaria camorra, la genealogia dei Casalesi, le ecomafie dei rifiuti, il sistema degli affari che si irradia dalla Campania fino a Parma e a Milano, che coinvolge politici e amministratori, banche, società  finanziarie.
Cantone è nato lì, era uno di quei ragazzi che imparano da bambini a vedere cadaveri per strada e a commentare in piazza. «Quante volte, parlando di omicidi come di calcio, avevo sentito dire: che importa, tanto si ammazzano fra di loro». E invece no, invece muore anche Mena Morlando, che ha 25 anni ed ha appena iniziato a fare qualche supplenza nelle scuole. Muore perché era andata a fare una commissione in lavanderia e alle sei e un quarto di sera è finita in mezzo a una sparatoria fra clan da un marciapiede all’altro della strada. Muore Giuseppe Mascolo, farmacista coraggioso, che non doveva essere ucciso, solo spaventato. «Alla prima udienza la famiglia Mascolo si costituì parte civile. In terra di camorra accade di rado: i familiari dei morti ammazzati non lo fanno quasi mai. Sanno che i boss non gradiscono perché leggono questa iniziativa come una simbolica adesione allo stato e quindi alla loro autorità ». Nell’ultimo capitolo di Operazione Penelope, (Mondadori) questo il titolo del libro, Cantone ragiona sull’importanza dello scrivere e parlare di mafie. Per non lasciare sole le vittime e i loro familiari, certo. Per dare appoggio a chi nella magistratura e nelle forze dell’ordine ogni giorno combatte in prima linea «in una sconcertante carenza di risorse e nell’indifferenza della società  civile». Ma anche perché, dice, se vogliamo vincere le mafie le azioni non bastano. Servono i simboli e gli eroi da opporre all’epica delle organizzazioni criminali, che tanta presa ha sui più giovani. Servono
La Piovra e Gomorra, i film i libri le fiction tv che raccontino quella stessa storia dandole un altro segno, un altro senso e se possibile un altro finale. Almeno la speranza in un finale perché la lotta alla camorra, fin dal titolo del libro, «rischia di non finire mai». I materiali del libro sono rielaborati da articoli pubblicati da Cantone sul Mattino di Napoli, sull’Espresso e sull’Unità , a cui ha collaborato dal 2009 al 2011. Sostituto procuratore a Napoli, poi otto anni alla direzione distrettuale antimafia, Cantone è oggi magistrato in Cassazione. Minacciato di morte, vive sotto scorta.


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