La guerra mondiale al lavoro Dove il sindacato si uccide

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BRUXELLES – Hector Orozco e Gildardo Garcia tentavano da tempo di sindacalizzare i campesinos di Chaparral, nell’entroterra colombiano. Lì le truppe dell’Ejército Nacional piantonano gli stabilimenti delle multinazionali che controllano le risorse del territorio, a partire dall’acqua. I sindacalisti erano stati minacciati più volte fino a quando il 30 marzo del 2011 un commando li ha raggiunti sulla strada di casa, li ha affiancati a bordo del motorino e ha esploso una raffica di colpi.

Tremila sindacalisti uccisi. Orozco e Garcia sono due dei 29 attivisti uccisi in Colombia l’anno scorso. Molti altri sono stati aggrediti, arrestati o semplicemente licenziati perché chiedevano condizioni migliori. Si stima che dal 1986 siano stati assassinati circa tremila sindacalisti nel paese, tra cui anche molte donne, impegnate nella scuola e nella giustizia. Il fenomeno non è limitato alla Colombia o all’America Latina, però.

Il rapporto annuale. Lo ha redatto la Confederazione sindacale internazionale  (Ituc) ha contato 76 vittime nel 2011, tutti attivisti, delegati e lavoratori che cercavano di affermare dignità  e democrazia attraverso la libertà  sindacale e la contrattazione collettiva. Sono i numeri di una guerra, una guerra globale al lavoro. L’elenco è lungo, infatti, con storie che seguono ovunque le stesse dinamiche omicide: dieci morti in Guatemala, quattro nelle Filippine, uno in Bangladesh, tutti crimini rimasti impuniti. Altri sono morti durante gli scontri con la polizia, per la violenza con cui le forze dell’ordine hanno represso proteste e scioperi. È successo e continua a succedere in Sud Africa, in Indonesia, in India, in Egitto, in Nepal.

Licenziati e precari. Meno cruento, ma altrettanto efficace è il licenziamento di massa. In Botswana è toccato a 2800 dipendenti pubblici che avevano incrociato le braccia per ottenere aumenti salariali, mentre in Georgia un governatore locale ha mandato la polizia ad arrestare gli organizzatori di una manifestazione di metalmeccanici, costringendoli poi a tornare in fabbrica. I leader sindacali sono ovviamente i più esposti. Gli arresti e le persecuzioni sono la norma ancora in Zimbabwe, nonostante i recenti cambiamenti politici, in Russia e in Bielorussia, nella piccola isola del Bahrein, così come in tutto il Golfo Persico.

Intanto in Europa… Anche in Europa, tuttavia, le misure di austerità  e le riforme del lavoro orientate al mercato e alla competitività  non hanno certo facilitato la tenuta dei diritti. Anzi, in buona parte dei paesi in recessione dilagano la precarizzazione e la desindacalizzazione. “La vita di molti giovani è scombussolata  –  commenta la segretaria generale dell’Ituc, Sharan Burrow – anche perché lavorano spesso per molte ore, senza alcuna protezione e per salari così bassi da non potere provvedere allo stretto necessario, per sé e per le proprie famiglie. Questo spiega in parte la recessione globale”.

Dopo le Primavere. Un capitolo del rapporto Ituc è dedicato alle Primavere arabe, in cui le organizzazioni del lavoro hanno svolto un ruolo determinante. Nonostante le rivoluzioni del Nord Africa abbiano portato alla caduta delle dittature, i nuovi gruppi di potere non hanno favorito le riforme democratiche del lavoro. In Egitto, ad esempio, il Consiglio militare inizialmente ha sospeso le attività  del sindacato di regime, poi ha vietato gli scioperi, considerandoli reati, e dopo ancora ha reinsediato i dirigenti del vecchio apparato, punendo invece i nuovi leader che chiedevano sindacati liberi.

In Tunisia, Algeria e Siria.
Il nuovo governo tunisino ha accusato le organizzazioni nascenti di complotto e di volere danneggiare l’economia nazionale. Una situazione molto simile si verifica in Algeria, dove proprio in questi giorni alcuni sindacalisti sono in sciopero della fame, e ciò che accade in Siria rivela chiaramente quanto i vecchi assetti di potere resistano a ogni pressione democratica. Nel 2011 circa 50 mila persone hanno perso la vita nelle proteste delle Primavere arabe. “Erano soprattutto giovani e quelle proteste sono state quasi sempre pacifiche – dice il rapporto del sindacato internazionale – ma i governi non hanno esitato a trasformarle in campi di battaglia”.


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