La favola americana

by Editore | 7 Giugno 2012 8:20

Loading

«Non sono uno scrittore di fantascienza», diceva di se stesso Ray Bradbury, morto ieri a 92 anni in California e non era per civetteria. «La fantascienza – spiegava – è una descrizione del reale. La fantasia è una descrizione dell’irreale. Il solo libro di fantascienza che ho scritto è Fahreneit 451, basato sulla realtà ». In un’altra occasione era stato ancora più preciso: «Se qualche ragazzo scriverà  a matita sulla mia tomba “Egli raccontava favole”, sarò felice. Non desidero fama più grande».
Narratore di favole, sì, ma di favole americane: favole circondate dalla trama dell’incubo, condannate a intrecciarsi continuamente con quell’oscurità , a misurarcisi e sfidarla, a volte a batterla con l’arma segreta di uno sguardo capace di cogliere la meraviglia nascosta ovunque, altre volte costrette a soccombere perché la meraviglia è troppo imparentata con l’orrido per rappresentare un riparo sicuro.
Da Salem a Marte
Tra i grandi autori americani della sci-fi o del fantastico diventati famosissimi nel dopoguerra, quando immaginare altri mondi era di moda, Ray Douglas Bradbury, classe 1920, nato nell’Illinois e cresciuto in Arizona, è stato insieme il più europeo e il più americano di tutti. Dall’Europa aveva preso l’amore per i miti e la coscienza della loro importanza per la cultura di un popolo. Più e meglio di qualunque altro tra i suoi contemporanei aveva cercato però di portarli da quella parte dell’Atlantico per creare una originale mitologia americana capace di insediarsi nelle autostrade interminabili, nelle cittadine di provincia che sono la pancia d’America, nella malinconia delle fiere di paese in autunno, nell’euforia fragorosa delle vignette dei comics dell’epoca. Vengono da lì l’«Uomo illustrato», il cui corpo è un fantasmagorico compendio di favole e miti, la «Strega della Polvere», l’«Uomo elettrico». La discendenza diretta dei grandi maestri scoperti nell’adolescenza e mai più abbandonati: l’Edgar Allan Poe creatore del gotico americano e l’Edgar Rice Burroughs dal cui Tarzan origina una intera genealogia variopinta di supereroi da fumetto. 
Esattamente 320 anni prima della morte del suo più celebre discendente, nel 1692, una delle antenate dello scrittore, Mary Bradbury, fu processata per stregoneria, condannata a morte e poi impiccata nella poco ridente cittadina di Salem. Forse anche per questo, il suo pronipote non perderà  mai di vista il lato oscuro dell’anima dell’America, e cercherà  non di esorcizzarlo ma di riconsocerlo, narrarlo e trasformarlo in mito fiabesco per averne ragione e sconfiggerlo. Cronache marziane la sua opera più famosa, quella che, anche grazie all’intermediazione provvidenziale di Christopher Isherwood, conosociuto per caso, lo rese da un giorno all’altro famoso nel Cinquanta (ma raccoglieva racconti scritti nei ’40), è una rilettura della storia americana e del mito della frontiera depurato da ogni baldanzoso trionfalismo ma anche spogliato dalla retorica facile della colpevolizzazione. È una storia di sogni e di orrori, segnata dalla necessità  di riconoscere l’altro e il diverso – il colonizzato, il nativo, il marziano – come non avevano saputo fare i padri pionieri, ma non per questo rinunciando alla colonizzazione. Dunque non solo e non tanto «rispettandolo»: piuttosto incorporando la sua cultura e la sua mitologia tanto quanto si cerca di comunicare a lui i propri miti e i propri valori.
Qualcosa dei roghi accesi nella città  dove fu impiccata la sua bis-bisnonna, Bradbury deve certamente averla riportata anche nel più famose dei suoi romanzi, Fahreneit 451. Col 1984 di Orwell e Il mondo nuovo di Huxley è probabilmente il più celebre e celebrato esempio di sci-fi distopica, fortemente influenzata dalla recente fioritura di dittature decise per la prima volta a intrufolarsi nell’intimo dei sudditi per dominarne non solo il corpo ma l’animo. In quel mondo si bruciano i libri, come fonte dannata di tutto ciò che è inquietante e perturbante, e si punisce severamente chi osa nasconderli. I roghi di carta stampata divampanti alla giusta temperatura di gradi fahreneit 451, dovevano qualcosa al sinistro sacrificio degli autori proibiti nella Berlino del 1933. Per quanto in tarda età  l’autore si sgolasse per negarlo, contraddicendo però sue stesse precedenti affermazioni, evocavano anche la passione censoria che percorre da sempre l’anima americana, dalla caccia alle streghe propriamente detta, di cui nonna Mary era stata una vittima, a quella di nuovo conio che veniva allestita negli anni in cui il giovane Ray scriveva i suoi capolavori, col senatore McCarthy nei panni del grande inquisitore. Però ancora maggiore era il debito che l’America di Fahreneit 451, intratteneva con la neonata televisione, e in generale con un sistema dei media che, nelle peggiori paure di Bradbury, si avviava in quegli anni ’50 distruggere la letteratura, e così facendo ad attutire, annacquare e smorzare ogni emozione, ogni inquietudine.
Maledetta modernità 
La sostituzione della realtà  con una seconda realtà  mediatica destinata a fagocitare la prima è in effetti un altro dei temi ricorrenti nella poetica di Bradbury. Forse il solo motivo per cui non è mai stato riconosciuto come uno dei grandi pionieri del cyberpunk è di stampo strettamente ideologico: forse nessuno, a parte Philip Dick, ha anticipato l’avvento della realtà  virtuale come lui, ma con intenti di palese e allarmata denuncia che non potevano essere granché apprezzati dai discepoli di William Gibson e di Matrix. Nel suo racconto più universalmente noto, The Veldt, due genitori di un futuro molto prossimo permettono ai figli di passare ore e ore con un gioco che trasforma la loro stanza nell’ambiente di volta in volta preferito. Quando decidono di darci un taglio e di sprangare la stanza dei sogni per restituire ai pargoli il senso della realtà , quelli li chiudono nella camera, trasformata in veldt, e se la godono ascoltando da dietro la porta le urla dei malcapitati mentre i leoni non più tanto virtuali li sbranano.
Nell’intreccio di ironia e orrore che rende Il Veldt uno dei migliori racconti di sci-fi mai scritti c’è tutto Bradbury: la diffidenza con forti venature moraliste per la modernità  e insieme una capacità  di comprenderne a fondo le dinamiche che gli rendeva impossibile non impadronirsi dei suoi codici per metterli al servizio della sua poetica. Pochi autori sono stati più «cinematografici» di questo scrittore e sceneggiatore che paventava la distruzione della parola scritta ad opera delll’immagine e l’assassinio della letteratura per mano della televisioni. Un po’ perché scriveva sceneggiature (la più importante per John Houston nel ’53: Moby Dick). Molto perché il grande schermo e soprattutto quello piccolo hanno saccheggiato per decenni i suoi romanzi e i suoi racconti. Truffaut è stato insuperabile con la sua versione di Fahreneit 451 interpretata da Oskar Werner e Julie Christie nel ’66: fedele allo spirito oltre che alla lettera del romanzo ma centrato più sull’amore per i libri e per le storie che per una paura della televisione che il regista francese avvertiva ormai meno incombente. Tre anni dopo Jack Smight portò sullo schermo tre racconti tratti dall’ Uomo illustrato, tra cui Il veldt, con risultati oltremodo deludenti nonostante la presenza di Rod Steiger tra gli interpreti. 
Ma è proprio l’«odiata» tv che ha chiesto a Bradbury innumerevoli sceneggiature e ha preso decine delle sue storie per portarle sullo schermo con risultati alterni. La serie tratta nell’80 da Cronache marziane, con un mostro sacro come Rock Hudson, fu apprezzata dal pubblico, molto meno dall’autore che la seppellì con un lapidario: «Noiosa». Mastodontico il Ray Bradbury Theater, in onda per sette anni, dall’85 al 92: 65 racconti ognuno riadattato dall’autore e introdotto da un suo breve commento.
Ma il legame più forte tra le parole di Ray Bradbury e le immagini di Hollywood è fatto ancora di libri: è la trilogia hard boiled scritta tra l’85 e il 2003, inaugurata dal bellissimo Morte a Venice. Tra i tanti omaggi post modern che proliferavano in quegli anni alla California degli anni ’40 e ’50, quella di Hammett, Chandler e McDonald, quasi nessuno è riuscito altrettanto bene, quasi nessuno è così sincero e così bello. Così capace di incorporare anche Hollywood e il noir e le serie televisive nel grande corpo tatuato della grande mitologia americana.

Post Views: 211

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/06/la-favola-americana/