LA DONNA CHE MORàŒ DUE VOLTE

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Ci sono libri che consolano: li leggiamo per evadere, dimenticare. Ci sono libri che insegnano: li leggiamo per sapere, scoprire, sorprenderci. Ci sono libri che feriscono: mordono, letteralmente, e regalano domande senza risposta, e inquietudine. Di questi è
Wiera Gran. L’accusata di Agata Tuszynska (Einaudi). L’accattivante copertina mostra la donna del titolo: bellissima, i capelli scuri raccolti, gli occhi socchiusi, il volto annebbiato da uno sbuffo di fumo. È stata una celebre cantante. Ma la voce che ci investe fin dalla prima pagina non è quella profonda e sensuale della “Marlene Dietrich polacca” che aveva sedotto il pubblico negli anni Trenta del ’900 intonando canzoni d’amore. È la voce stridula (sbobinata dal registratore) di un’ultraottantenne, sigillata in una lucida follia. Insieme strega malvagia e vittima, bambina infranta e fantasma, è una morta non-morta, che ai nostri giorni, in un appartamento elegante di Parigi, monologa, ricorda e lancia invettive alla Céline.
L’autrice stabilisce con la sua protagonista un rapporto empatico non privo di pietas, ma Wiera Gran non si colloca nel fiorente filone delle biografie risarcitorie di donne – scrittrici, artiste, combattenti – abrase dalla memoria collettiva. Vuole piuttosto “decostruire un enigma”. E il suo libro è la storia di una doppia ossessione, il racconto di una vita, un’indagine su un delitto, un caso clinico, e un viaggio nella tenebra infetta dei comportamenti umani. E la sua vera eroina non è l’ambigua protagonista, ma la memoria. La bellissima ebrea polacca Wiera Gran nata Grynberg, cresciuta in povertà , incide i primi dischi nel 1934, a 18 anni. Affamata di lusso e denaro, corteggiata dagli uomini ma incapace di provare amore per chiunque all’infuori della madre, diventa una stella nei locali della Polonia e della Russia. L’invasione nazista le strappa il futuro. Nel marzo del 1941 finisce – con madre e sorella – nel ghetto di Varsavia. Le condizioni di vita sono durissime, nel ghetto si muore di fame. Ma Wiera pensa solo a cantare. Si esibisce al Café Sztuka – con un giovane pianista, destinato a diventare “il pianista”, eroe nazionale, poi consacrato dal film di Polanski. Fra i suoi ammiratori, i famigerati collaborazionisti del gruppo Tredici, spie e tedeschi della Gestapo. Nell’agosto del 1942 riesce a fuggire dal ghetto e si nasconde in un sobborgo di Varsavia. Madre e sorella saliranno sui treni piombati e moriranno nelle camere a gas. Wiera sopravvive. Ma a quale prezzo? E cosa significa, sopravvivere? Tutti la considerano morta – e, in qualche modo, Wiera è
morta davvero. Non riavrà  mai più la sua vita.
Nel marzo 1945 viene arrestata con l’accusa di collaborazionismo. Testimoni la definiscono una “puttana della Gestapo”, traditrice della sua gente. Il caso viene archiviato, “non sussistendo il reato”. Un secondo processo si svolge fra il 1946 e il 1949. Nuovi testimoni oculari la inchiodano coi loro ricordi; altri invece la difendono, sorpresi; altri ancora tacciono, e taceranno per sempre. Viene assolta per mancanza di prove. La sentenza non le restituisce l’onore perduto né l’innocenza. Wiera Gran ha poco più di trent’anni. Vuole vivere, cantare. Lascia il suo uomo e la Polonia, resta sola. Vaga senza pace da Israele a Parigi, dalla Svezia a New York – inseguita dal suo passato, dalle voci, dalla condanna senza appello dei sopravvissuti alla Shoah. Le viene impedito di esibirsi, la musica la abbandona. Non canterà  mai più, nemmeno per Tuszynska. Intraprende
una vana battaglia legale contro coloro che “la diffamano”. Si identifica col personaggio di Kafka (“io sono la signora K.”). E a poco a poco monta la paranoia, il delirio di persecuzione, la certezza di essere minacciata, spiata perfino dalle lampadine del soffitto – la vita diventa un carcere da cui non c’è liberazione. Braccata come una
preda si rintana in un appartamento di Parigi, tra ritagli e vecchie fotografie, atti processuali, reperti di glorie svanite. Ed è quel fantasma ossessionato dalle ombre e dai segreti che Tuzsynska va a stanare – prima con una telefonata, poi con reticenti colloqui sul pianerottolo, infine in quella casa infestata dai demoni.
Perché anche Tuzsynska, già  biografa di Isaac B. Singer, e dei discepoli di Schultz, è inseguita dai suoi demoni, come narra in
Storia familiare della paura,
biografia della sua famiglia e della Polonia. Solo a 19 anni infatti ha scoperto di essere ebrea: la sua vera identità  le era stata celata dalla madre. Che, insieme alla nonna, aveva vissuto, come Wiera, l’incubo del ghetto di Varsavia. Sopravvissuta, aveva amputato da sé appartenenza e memoria. Così l’opera di questa scrittrice perturbante – tradotta per la prima volta in italiano (da Margherita Botto) ma che è anche poetessa, docente di giornalismo letterario
e considerata erede della narrativa documentaria di cui Kapuscinski è stato il maestro – è una riflessione sui temi della persecuzione, della sopravvivenza, della colpa. E il suo libro diventa una allucinata “danza con Wiera Gran” – un corpo a corpo che non lascia indenne né lei (il libro ha suscitato violente controversie) né il suo progetto. Perché Tuzsynska ascolta la verità  della cantante, e vorrebbe crederle, e scrivere il libro per proclamare definitivamente la sua innocenza. Ma il puzzle non si ricompone. Le ricerche di documenti che intraprende negli archivi, gli incontri coi testimoni, non le offrono certezze. Solo ipotesi e dubbi. La verità  si rivela inattingibile. La memoria dei testimoni muta col tempo – e con la società  in cui gli uomini vivono (la verità  del 2004 non è quella del 1946). I fatti evaporano. I dossier scompaiono, mentre altri, nuovi, riaffiorano dagli archivi del controspionaggio. Nella sua cella-bunker dietro la Tour Eiffel,
prigioniera per sempre, la vecchia signora delira – lancia accuse contro i sopravvissuti cui è toccato il ruolo degli eroi, combatte fino all’ultimo giorno la sua battaglia per lavarsi l’anima. Infine muore – a 91 anni. Senza patria e senza nome sulla tomba. La sua è una storia shakespeariana. Tuszynska ritiene che questa donna troppo bella, troppo giovane, frivola e sola, sia stata un bersaglio facile: la vittima ideale di chi, accusando lei, si rifaceva una verginità . Ma la Wiera Gran che si aggira nel suo appartamento di Parigi evoca anche Lady Macbeth – perseguitata dalla macchia di sangue che continua a vedere sulle sue mani.


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